Dodicesimo album per la band di Philadelphia ormai trasferitasi definitivamente a San Francisco. Lo scorso anno è stato pubblicato il triplo album “Re-Introducing” per celebrare il 25mo anniversario del debutto della band che prende il nome da Vesta, l’asteroide più luminoso del nostro sistema solare.
Scott Vitt   (all’anagrafe Vittorelli) e  Eric Harms formarono la band negli anni novanta, periodo nel quale nella natia Philadelphia iniziarono le prime esperienze musicali. Grandi appassionati della musica indipendente britannica (erano pure in una cover band degli Smiths) i due amici non hanno mai negato l’influenza di grandi gruppi quali i My Bloody Valentine, Slowdive, The Church, House of Love, Catherine Wheel, Moose, The Kinks, Echo and The Bunnymen, The Chameleons, The Stone Roses. Il meglio dello shoegaze insomma a cui dobbiamo aggiungere uno smisurato amore per i Byrds,
Attualmente la band è composta dagli storici fondatori Eric Harms (chitarra) e Scott Vitt (chitarra e voce), ai quali si aggiungono Matty Rhodes (basso e voce ) e Mark Tarlton (batteria e percussioni).

Credit: Bandcamp

Ormai considerati tra i più credibili interpreti dello psych-rock americano, gli Asteroid No.4 confermano anche in questo disco di saperci fare con quel loro approccio particolare alla psichedelia cullata da atmosfere space rock create da tappeti di synth a cui si appoggiano le chitarre riverberate. Shoegaze sognante, melodie languide, delicate e oniriche ben interpretate dalla voce di Vitt.

L’album è stato registrato e prodotto dalla band nel proprio studio di San Rafael e masterizzato da Simon Scott degli Slowdive.
I brani si susseguono confermando lo stile della band sin dalla opener “Under Lock And Key” con il basso sinuoso e le tipiche atmosfere psichedeliche che si esaltano in “Elevator” e nelle cadenze indiane” di “Silhouette” che chiudono l’album lasciandoci in uno stato quasi meditativo, di osservazione interiore.
Ascoltando le varie tracce si fatica a trovarne alcune che si elevano sulle altre. Trovo “Opaque” geniale per la costruzione e “Rescue” trascinante per il suo ritmo sostenuto.
“Lost Inside” è forse il picco per quanto riguarda il senso estetico e la melodia ma la successiva “Caroline’s Gone” ci fa sorgere dubbi sulle classifiche di merito dell’album.
Le belle armonie vocali di “Lille” precedono la chitarra acustica di “No Heaven”, ballata fosca e onirica che ci attrae con la sua melodia malinconica.

Decisamente un buon album, l’asteroide non ha perso la sua luminosità.