Ammettiamolo pure: una delle ragioni per cui amiamo così tanto l’universo musicale è dovuta al fatto che nel regno delle sette note ognuno riesca a vedere quel che vuol vedere. Si tratta di una regola atavica, banalissima, non scritta, ma che ogni giorno, sul pianeta Terra, viene seguita quasi alla lettera da miliardi di persone. Anche (o sarebbe il caso di dire soprattutto?) in maniera inconsapevole.

Credit: James Minchin III

Nel caso specifico del nuovo album dei (decisamente furono) Linkin Park – “From Zero” – tale regola è stata esacerbata fino allo sfinimento. Sì, insomma, senza girarci troppo intorno: il suddetto disco ricorda un po’ la corazzata Potëmkin di Fantozziana memoria. Ecco. Si tratta, infatti, di una mera operazione commerciale ideata appositamente per risvegliare gli animi più spettinati dei Millennials-boomer e di tutti coloro che ripensano a cose come Crash Bandicoot o ai jeans a vita bassa con languida nostalgia.

E pur approcciandosi all’album realizzato da Mike Shinoda ed Emily Armstrong con obiettivo distacco – ci mancherebbe – il succo non cambia. Ci troviamo al cospetto di un’opera musicalmente inconsistente, fiacca, piena di idee (in verità piuttosto basiche) che potrebbero provenire da un qualunque gruppetto pseudo-rock originario di Seattle o, che so, dello stretto di Cook. Brani come “The Emptiness Machine” o la stessa “Overflow” riescono a provocare – almeno in chi scrive – la medesima sensazione, simil grima, di quando viene utilizzato impropriamente il gessetto sulla lavagna. Il rap-metal da supermercato di “Heavy Is The Crown”, invece, ci ricorda che al mondo esistono cose ben più terribili della fila alle Poste o del nuovo formato della Champions League.

A voler esser buoni, potremmo salvare tracce come “Stained” o la conclusiva “Good Things Go”. Nulla di trascendentale, sia chiaro, ma il salotto sonoro di “From Zero” è così privo di gingilli che ogni nota un po’ più obliqua riesce a spiccare oltre gli orizzonti grigi del disco in questione. Se siete arrivati alla fine di questa recensione, tra l’altro, avrete notato certamente che il compianto Chester Bennington non sia stato nominato nemmeno per sbaglio. Inutile andare a disturbare – seppur metaforicamente – i mostri sacri di una precisa epoca musicale solo per sminuire la vacuità artistica di chi ha deciso di provare a rivangare i fasti dei bei tempi andati. A volte, alcuni capitoli, sarebbe meglio non rileggerli, proprio perché figli di una determinata Era. Con buona pace dei Millennials-boomer e dei jeans a vita bassa.