Lasciato riposare a lungo, nei varchi degli impegni professionali e in quelli meno entusiasmanti della vita quotidiana, il primo vero album solista di Kim Deal profuma di meraviglia , ci sommerge di una infinita esuberanza indie, cogliendoci di sorpresa in questo fine 2024, in un periodo normalmente privo di sobbalzi, ma che forse si era solamente sottovalutato, mentre “Nobody Loves You More”, ci costringe felicemente a rivalutare un’ideale top ten degli album di quest’anno.
In queste 11 tracce, è come se riuscisse l’arduo tentativo di coniugare eterno spirito indie, come si diceva, ad una esplorazione di songwriter matura, dove questa mirabile fusione si vede nella riproposizione di classici generi d’annata della musica americana, instillandoci la verve istintiva e audace per definizione di uno spirito libero e non sovrastrutturato, come nell’iniziale titletrack, che parte su un tranello pre Velvet dove si inseriscono fiati quasi mariachi, archi alla Radiohead a mischiare il tutto, con effetto spiazzante: un pò quell’estrosità innovativa, che a dire il vero caratterizzava anche l’universo Pixies, quel fare tranchant di contaminare il repertorio USA con un fare post punk, appunto alternativo, cosa che di fatto succede non solo nella traccia citata ma anche altrove, ad esempio nella succesiva “Coast” e altre situazioni sparse qua e là.
Si alternano quindi queste rivisitazioni che sanno a volte del migliore Lou Reed (“Are you mine?” potrebbe essere una versione di “Pale blue eyes”, ma se la si ascolta attentamente arriviamo fino a Elvis) piuttosto anche alla suadente “Summerland”, quasi soft jazz, contrapposte alle parti diciamo più noisy, dove l’ex Breeders non perde un filo della sua caratura rock, immortalando alcune splendide canzoni, dallo stomp digitale di “Crystal Breath” alla granitica “Big Ben Beat”, con dentro anche la migliore, quella “Come Running”, un brano dal feeling inconfondibilmente legato al grunge memo irruento, dove un Cobain o un Staley avrebbero fato pazzie.
Un album che condensa il meglio ultradecennale di una front leader immensa, che conserva l’approccio originario delle hit dei Pixies, gli intro veloci, due strofe, il frame principale e la ripetizione in rapida sequenza, insomma quel naturale modo di comporre che alterava la forma canzone rock dando vita ad un genere tuttora resistente.
Come dice la traccia finale, ancora filo Breeders, “we’re having only a good time”, non c’è molto altro da dire, c’è aria di vera celebrazione, si possono fare solo dei complimenti per un album che assomiglia in tutto e per tutto alla musica, a ciò che associamo alla paladina di Daytona, nessuno la amerà di più.