credit: Antonio Viscido

In un freddo pomeriggio romano – il primo vero pomeriggio freddo d’autunno – abbiamo incontrato Paolo Benvegnù al Monk, celeberrimo club della città.
Nonostante un po’ di congestione respiratoria che avrebbe reso probabilmente irritabile o comunque poco collaborativo qualsiasi altro artista, veniamo accolti con incredibile cortesia ed entusiasmo, come è nell’abitudine del cantautore.
Insieme, abbiamo parlato della versione reloaded di “Piccoli fragilissimi film“, del disco precedente, cioè “È inutile parlare d’amore“, e di altri interessanti temi, affrontati da Paolo in maniera mai banale.

Per questa riedizione di “Piccoli Fragilissimi Film”, gli artisti coinvolti hanno una relazione personale con te oppure li ammiravi e avresti voluto collaborare con loro, o entrambe le cose?
É stata una cosa strana. Partiamo dal presupposto che io non avrei mai voluto fare questo dico. Io ho questa prerogativa: mi sveglio la mattina e non ricordo quello che ho fatto il giorno prima. No, in realtà ricordo ogni cosa, ma..abbandono. È l’unica maniera, secondo me, per vivere le cose nell’istante in cui ci sei. Questo è un paese che ama le cose per nostalgia.
Sotto questo punto di vista, cerco di essere meno italiano possibile. Perciò, non volevo farlo, ma i ragazzi di Woodworm (l’etichetta di Benvegnù, Nda) mi hanno detto che per loro è stato un disco formativo, come se fosse stato una sorta di romanzo di formazione. Allora, ho detto “ok, lo faccio ma guardate che lo faccio per voi!” Poi i miei compagni della band mi hanno detto “dai, ogni tanto li risuoniamo sti pezzi, ci divertiamo! Facciamolo con leggerezza“. E da lì è nata l’idea di chiamare delle altre persone per farlo diventare ancora più leggero. Perché ho scoperto, mentre mixavamo “È inutile parlare d’amore”, che i pezzi sono molto belli finché non canto io e abbasso la qualità. Per me i pezzi sono molto più brillanti armonicamente quando sono fatti dagli altri. Anche a livello strumentale risultano molto più interessanti.
E così, mi hanno convinto. E poi io non ho fatto nulla, ovvero…io avevo dei desiderata. Ad esempio, avere Paolo Fresu era un mio desiderio. Sono andato a vederlo cinquanta volte, pensando “magari nella vita si potesse fare qualcosa insieme”. Gli altri incontri sono avvenuti in maniera un po’ più… particolare. Ad esempio, a qualcuno l’abbiamo detto, come nel caso di La Rappresentate di Lista, Piero Pelù o Irene Grandi. Qualcun altro l’ha saputo e ha detto che gli sarebbe piaciuto partecipare. Di certo non andavo a pensare che Piero Pelù ascoltasse “Piccoli fragilissimi film” a casa sua, nel 2006.

Non siete amici, quindi, con questi artisti?
In realtà c’era una conoscenza, ma non avrei mai pensato che ci fosse anche della stima da parte loro. E questo mi ha fatto capire che sono sempre stato molto chiuso. Sono un po’ un orso io, anche se non sembra. Comunque si è aperto uno spiraglio, anche grazie a Luca Baldini (storico bassista e sodale, Nda), che è stato un po’ il motore di questa cosa. Abbiamo ricevuto un sacco di abbracci e di carezze e mi sembra abbastanza irreale. Sta di fatto che io ho fatto le guide – chitarra e voce – , ma hanno suonato tutto i miei compagni, mentre dall’altra parte tutti gli ospiti han fatto quello che hanno voluto. Io sono arrivato alla fine cercando di cantare insieme agli altri alla loro maniera.

Quindi, ti sei, come dire…”accodato”…
Esatto. Ho dovuto imparare perché cantare con quelli bravi è difficile, perciò è stato anche una bella lezione di apprendimento.

E quindi, al di là delle delle collaborazioni, cosa ha significato re-immergersi in questo disco che ha rappresentato la la partenza della seconda parte della tua carriera?
É andata così: è materiale che io non sentivo più dall’epoca, a parte il fatto quando ogni tanto alcuni pezzi li ho suonati in giro. E perciò è stato strano per me rientrarci e accorgermi che facevo un sacco di accordi di meno, era molto meno complesso. Forse devo tornare a capire che l’importante non è tanto la bellezza estetica di di un brano quanto la la partenza primigenia…insomma…la scrittura, ll senso dell’urgenza…perché all’epoca era un periodo un po’ di disperazione, ma anche di grande libertà, cioè non sapevo che cosa mi succedeva dieci minuti dopo, non avevo nessun ruolo e perciò questo dà un grande vantaggio, anche se fa anche star male, quando non sai e devi dormire in macchina oppure no. Oppure quando sai che dormi in macchina e la mattina dopo vengono quelli della polizia locale a bussarti al parabrezza. Cosa che è successa!
E quindi…siamo partiti da questo presupposto. Noi adesso dovremmo cercare di fare questi concerti, esattamente come quando mi han bussato sul parabrezza della polizia locale, quando ho dovuto convincerli che alle 10:45 – cioè tipo un’ora dopo – avevo delle prove a Sesto Fiorentino con Marco Parente, con la macchina che era carica di strumenti. Il motivo è che stavo cercando una sistemazione! Perciò questo è il senso esatto sia di quel disco che di questa tourneé.

Facciamo un passo indietro nella tua discografia (recente): perché è inutile parlare d’amore? Ti dico come ho interpretato io il titolo. Diciamo che c’è quella che potremmo definire una saturazione di questo tema – l’amore – che ritroviamo sparso e spezzettato in varie canzonette. Quindi è inutile ribadire il tema. Oppure immaginiamo che stiamo dando per assodato un sentimento che in realtà è importantissimo e che può essere enunciato in altri modi oltre che, diciamo, alla tua maniera.
Mettiamola così. Questi qua sono due riflessi, ma il vero centro è legato proprio all’utile. Non è utile né economicamente né nella mia posizione del mondo, nella tua posizione del mondo e nella posizione di chiunque parlare d’amore, al di là del fatto che bisognerebbe, alla fine, praticarlo. Ma non è quello il fatto. È proprio che è inutile, non è utile, non dà degli utili. È una critica, mettiamola così, alla nostra società, nella quale l’amore è inutile. Se gli uomini dimenticano l’amore (se partiamo dall’accezione di amore come a-mors, e cioè non-morte) – anche questo dialogo, paradossalmente, è amore, perché per fortuna non siamo morti, siamo vivi! – e tutto viene teso all’utile, allora è inutile parlarne, ma è in un’accezione positiva. È meglio che sia inutile. Continuiamo a fare cose inutili, per cortesia…torniamo a fare cose inutili.

Del disco sempre in questione a me è rimasta molto impressa “il nostro amore indifferente”: nel suo testo, a suo modo criptico, se vogliamo – però non è la definizione corretta – non è immediatamente chiaro questo amore cosa effettivamente sia.
Personalmente l’ho interpretato come una sorta di presenza-assenza (lo dice d’altronde anche il testo). Questa sensazione si traduce poi in un amore viscerale, quasi ferino. Pensiamo a quando dici “Ti vengo a cercare come gli assassini“, che ho inteso in senso “positivo”: la raffigurazione di una consapevolezza, nel sentire una mancanza che va colmata. Ma potrebbe essere anche che c’è una persona dentro questo amore che è indifferente all’altra, mentre quest’ultima tenta di avvicinarsi.
Queste visioni sono interessanti. Quello che sentivo, che ho inserito nel pezzo – che ho scritto in due minuti perché mi è proprio esploso tra le mani – è questo: il senso è legato al visibile. Una cosa è visibile, un’altra cosa è invisibile. Una cosa è differente, una cosa è indifferente, cioè non differisce. Ecco, ho usato una specie di neologismo usando il suffisso in. C’è quindi, sì, questa mancanza. C’è qualcosa di impossibile che io cerco dall’inizio della mia vita e e questa cosa non differisce mai e e fa sì che io che mi senta una specie di Orlando Furioso astratto. Sono sempre all’inseguimento di qualcosa, anche se questo non mi mi dà disperazione, anzi mi dà senso. Questo è nell’amore, e questo è in tutte le cose che un essere umano sviluppa nella sua vita. Mi piaceva l’idea di dire che il nostro amore rimane sempre identico, che è sempre indifferente, cioè che non è differente, rispetto a quello che succede nella società, a quello che succede nel costume, a quello che succede tra me e te.

Vorrei parlare di un altro brano che mi è rimasto impresso, tratto dal tuo penultimo disco e cioè “Alla disobbedienza”. La sua coda atmosferica mi ha fatto pensare a questa immagine: l’artista che in questo caso ha voluto mirare a diventare altro da sé, come se volesse trasformarsi attraverso questa foggia musicale “ambientale”, per cercare un nuovo spazio, in un nuovo tempo. Un po’ come ha fatto Bowie nei pezzi sperimentali nella parte finale di “Low”.
Beh lì sono stati raggiunti risultati più congrui (ride, Nda). Guarda, mi stai suggerendo una cosa che inconsciamente ho fatto mia. Questo disco è stato pensato come un disco sull’Altrove. E la disobbedienza è significativa. Disobbedire al proprio ruolo è significativo dell’andare altrove. Non sei più nella realtà e e nemmeno ti interessa più la realtà. Sei in una realtà, sei in un altrove e in questo altrove ti trovi meglio…anche perché non esistono dei parametri definiti. Tu sei materia come materia è ciò che ti gira intorno. È come un po’ sciogliersi in essa. Adesso che mi ci fai pensare tutta la coda può proprio essere stata quasi filologicamente qualcosa che andava in quella direzione, in maniera inconscia. Non ci avevo pensato prima. Ti ringrazio, mi hai dato un una bella chiave di lettura.

Queste intuizioni “eteree” a livello di sonorità, le sentiremo anche in lavori futuri?
Non ne ho idea. Sai questo quel disco lì è un disco veramente “di scrittura”, cioè è stato composto tutto con chitarra e voce, perciò gli arrangiamenti partono da lì e noi non abbiamo avuto neanche troppo tempo per lavorarci. Perciò quello che è successo è che siamo andati in sala prove e abbiamo suonato i pezzi così com’erano stati scritti, per un paio di volte, e poi li abbiamo registrati. Perciò è come se fosse un disco che non è un disco, ma è più una pre-produzione. Ma per “Alla disobbedienza” è stato diverso. È partita dalla sezione finale che avevo già…ed è stata una cosa che mi è venuta così, di getto, mentre ero solo alle 5 di mattina. L’idea era di perdersi in questa dissolvenza lunga perché perché volevo uscire da ogni ruolo, per poter fluttuare nella materia e poter finalmente dimenticarsi del fatto che sono figlio, che sono padre, che sono insegnante, che sono cittadino, che ho il codice fiscale da quando sono nato. L’idea era proprio quella di andare verso un concetto di disobbedienza, però strettamente legato a al desiderio, cioè il desiderio dell’amore, di relazione verso l’altro in generale, un desiderio di relazione verso l’alterità che ti porta a uscire da un ruolo e per sciogliersi nell’altro ed eliminare l’io, per entrare nel noi. Non sono sicuro di esserci riuscito, però insomma, questa era l’idea. Questa cosa del noi più che l’io, dovrebbe essere necessaria. Ma proprio per la sopravvivenza.

Ho immaginato questa frase, pensando ad alcune parole di altre tue interviste e ripensando al pezzo: navigare con mezzi effimeri verso l’infinito. Spesso ti sei posto come se volessi ridimensionare le tue intuizioni artistiche. In questo senso parlo di “mezzi effimeri.”
Ma sì, decisamente sono intuizioni che possono avere tutti, se lo avute io. Lo dico senza problemi. Magari qualcun altro si vive la propria vita attraverso una propria geometria, un proprio simbolismo, un proprio lessico. Per me la mia geometria non è geometrica. Questa vita non è neanche possibile studiarla né vederla perché è casuale. C’è questo grande problema della discrepanza tra il mondo che ti immagini e quello che vivi. Questo procura un sacco di frustrazione. Se tu ti focalizzi sul semaforo rosso, sulla sfortuna, sull’agenzia delle Entrate…non vivi più, ed è una trappola in cui cadiamo tutti, e in cui io cado tuttora. I miei sono sempre soltanto tentativi, e il più delle volte che non riescono. E allora io non voglio più nessuno che mi metta tristezza intorno, io che l’ho fatto per tanti anni. Io faccio in modo di scavalcare questo ostacolo. Perciò tutti possono arrivare a qualsiasi tipo di intuizione. Io sono la prova di questo, perché sono veramente una persona poco intelligente e con un intelligenza veramente parziale.

L’infinito è il contrario dell’effimero, perché l’effimero è il presente e l’infinito è oltre. Come vivi questo apparente contrasto?
Potrei parlarti di quella che io chiamo una resa. Bisognerebbe incominciare a a pensare bene anche alle parole, come si dicono e qual è il loro significato, cos’è la vittoria, cos’è la sconfitta, cos’è la resa. Vogliamo controllare, tutto noi uomini, ma non può essere così. E una volta capito questo ti arrendi a a ciò che noi non riusciamo a percepire. La realtà che noi vediamo è strettissima, piccolissima rispetto a quello che è la Realtà. Del resto ce lo dice anche la fisica quantistica

Hai letto il libro di Carlo Rovelli “Heligoland”?
Sì, l’ho letto. Vedi, possiamo affermare, anche scientificamente, che noi vediamo in relazione, vediamo e sentiamo parzialmente. Questo dovrebbe dare una mano. Uno dovrebbe pensare: “Oh, che bello, vedo soltanto quello che posso“. E il resto si sviluppa secondo regole che non comprenderemo mai, almeno noi in questa generazione.

Infatti lui dice proprio che ha smesso di farsi domande che vanno troppo al di là della propria percezione, a livello esistenziale.
E che problema c’è? È come se fossi un astronauta e al posto di andare ad esplorare altri pianeti ti dicessi che volessi vagare nello spazio, perché mi rimane un’ora di ossigeno. Quindi sceglierei di sciogliermi nella materia, che è un po’ quello che è evocato in “H3+”. Son convinto del fatto che se uno è felice di quello che è successo, quale rimpianto ci può essere? Starà a te scegliere se ti piace l’idea di scomparire oppure no. Io non vedo l’ora. Cioè non è che vado contromano in autostrada. Ma penso di avere già fatto fin troppi danni in questo mondo, nel mio piccolissimo.

A proposito di di danni, ti voglio citare un pezzo della recensione di Stefano Solventi riguardante il disco in questione. All’interno dell’articolo si parla di “una leggera tensione verso il radiofonico che permea, secondo lui, alcuni momenti del disco: “il rischio è concedere troppo alla pianificazione accogliente, alla mediocrità del codice sensazionalista (…). Tuttavia, anche se l’ascolto si porta dietro la sensazione di un benvegnù che lavora al di sotto delle proprie possibilità, è così bravo da uscirne comunque significativo.
Ha perfettamente ragione. È un passaggio giustissimo perché a me è stato proprio chiesto di fare dei pezzi più semplici. Io mi sono un po’ ribellato a questa cosa e poi a un certo punto un paio di pezzi più semplici li ho fatti.

Scusa, chi te l’ha chiesto?
Quelli della mia etichetta, ma non è sbagliato. Hanno ragione. Hanno avuto la sensazione, specialmente negli ultimi dischi che ho fatto con Woodworm, che io mi arroccassi nel mio mondo. Ma io non sono né un intellettuale, né un filosofo. In realtà mi sono chiuso perché se mi chiudo mi tengo meglio, altrimenti esplodo in mille pezzi. E allora loro mi han detto “a sto giro prova a vedere se quantomeno noi riusciamo a capire quello che dici!“. E io ci ho provato. E penso che la summa sia “Canzoni Brutte”, che è un brano stupido che abbiamo suonato due, tre volte, e che non faremo più. Ma è stato un tentativo, anche da parte mia, di uscire da questa sorta di isolazionismo che può anche sembrare spocchioso. Io da dentro, devo dire che non lo faccio per snobismo. Io sono così: ad esempio, se vedo un film di Elio Petri mi piace e e lo comprendo oppure gli dò la mia interpretazione. Se vedo “Vacanze ai Caraibi”, ho dei problemi. Allora, quello che ho cercato di fare è stare in una via di mezzo anche dal punto di vista strettamente comunicativo. Perciò è stato un tentativo non del tutto riuscito, però almeno l’ho fatto. Son contento di averlo fatto perché so di non essere tagliato per quella cosa e quindi al prossimo giro potrò dire:”guardate io c’ho già provato!“.

Cosa pensi della scena musicale di oggi? Ho notato che manca una certa intensità in quei personaggi influenti che ancora sono molto giovani, che nel passato magari potevi trovare. Banalmente parlando ed estremizzando, non vedo – attenendoci strettamente al fatto musicale – dei piccoli Ian Curtis all’orizzonte, ecco.
Penso che è un mondo che tende all’utile. È un mondo di “professionisti”. Se tu togli l’aspetto dell’intercettare il mistero, cioè il farti delle domande, mentre tutto diventa assolutamente già precostituito, è inutile che lo fai. Cioè fare di questa cosa un mestiere è un errore. Nel momento in cui io sentirò che questo è diventato un mestiere – non è neanche una parola brutta, ok? – io smetto. Anche perché facendo qualsiasi altro lavoro guadagnerei 50 volte tanto. Se parliamo di un Curtis, ma anche di quel tipo di di idea, di quel tipo di mondo…lui non aveva nulla da perdere e non era visto come un pericolo per tutti gli altri, anzi aveva quello che mancava agli altri. Quello che portava poteva anche essere visto come un valore. Dopo tanti pensieri che ho fatto in tutta la mia vita – non necessariamente brillanti – però sono arrivato a questo: (non è che sia propriamente un raggiungimento) sarà un raggiungimento il giorno in cui riuscirò veramente a non fare niente, a non muovermi, ad essere realmente inutile per la società. Ma non faccio ciò che faccio per protesta. Non bisogna protestare. Io non protesto su nulla. La vita succede. Noi dovremmo metterci nella testa che cercare di dominare la vita che succede è un errore gravissimo. Perciò la vita è questa: non c’è nient’altro. È bellissima proprio per questo, è un miracolo proprio per questo.