Se l’anno scorso era toccato a Mickey Rourke, questa volta è toccato a Jeff Bridges: peccato solo che nel 2009 il suo eccezionale Randy “The Ram” Robinson si sia trovato davanti un mostro sacro come Sean Penn, nella corsa alla consacrazione dell’Academy.
Forse è troppo facile associare “Crazy Heart” a “The Wrestler”, ma è anche un’operazione inevitabile, anche se è solo il primo film che viene in mente, in un repertorio – fortunatamente vasto ma non sconfinato – di gioielli in cui si è compiuto il miracolo di una perfetta coincidenza tra lo stato d’animo del personaggio e quello dell’uomo che doveva portarlo sullo schermo.
E’ un paragone scontato, ma necessario per capire il modo in cui i due attori si sono calati anima e corpo nel film, per come ci hanno messo dentro tutta la loro esperienza personale, e per la straordinaria intensità che sono riusciti a regalare ad ogni inquadratura.
Del resto, lo dice anche Bad Blake, mentre cerca comprensione nello sguardo sofferto di Maggie Gyllenhaal: è impossibile pensare alla propria carriera senza fare i conti con la propria storia; non c’è altro modo di essere onesti con la propria arte, se non in quello di immergerla, sporcarla nelle proprie emozioni, nei propri fallimenti, nell’accettazione di cosa significa pagare il prezzo del proprio talento.
C’è poco da dire: “Crazy Heart” è un film che si affida completamente ai suoi interpreti, e vince la scommessa grazie alla loro capacità di mettersi a nudo.
Per il suo esordio, il regista Scott Cooper non poteva fare altrimenti, anche perchè è un attore anche lui, e deve essersi trovato molto più a suo agio nel cogliere le sfumature create dai loro volti, che non a crearli con le atmosfere della messa in scena, che si limitano per lo più a fumosi locali e a stanze poco illuminate.
Il suo è certamente un film meno disperato di quello di Darren Aronofsky, e offre una possibilità di redenzione anche nel momento in cui spiega come a volte sia troppo tardi per riparare agli errori passati: del resto, anche il protagonista riesce a trovare il materiale adatto ad arrivare al cuore del suo pubblico proprio dalla costante sconfitta delle sue ambizioni.
Il Bad Blake tratteggiato da Jeff Bridges è un vero monumento al country, al suo spirito insieme triste ed insieme fatalista: un ubriacone capace di rovinare tutto – anche le sue intenzioni più nobili – per il cieco perseguimento della sua vocazione, un artista capace di creare solo sotto la spinta del dolore e della malinconia, quando non dalla involontaria ricerca dell’autodistruzione.
La sceneggiatura è abbastanza piena di clichè: la vecchia gloria soppiantata da un ex-allievo (che è però incapace di scrivere proprio perchè conduce una vita di successo), l’incontro con una donna dal passato turbolento, il rapporto con un figlio che non ha mai visto e l’illusione di una nuova vita dietro l’angolo, la possibilità di un rifugio – la prospettiva disperata di un tranquillo menage familiare a Houston – dopo una vita passata in giro nei posti più sperduti e dimenticati degli Stati Uniti.
Davanti a presupposti del genere, l’unico modo per svincolarsi dal luogo comune era quello di scegliere l’uomo giusto per la situazione giusta: e Jeff Bridges – l’antidivo per eccellenza, il pigro figlio d’arte capitato ad Hollywood suo malgrado – risponde in pieno alla chiamata di un ruolo che gli è stato cucito addosso.
L’attore ha il merito di non essersi limitato a portare addosso un abito confezionato apposta per lui (come ad esempio aveva fatto ne “Il Grande Lebowski”), ma di averci aggiunto la confessione e la voglia di autoassoluzione che lo ha portato fino al palco degli Oscar, pentito ma nemmeno troppo di non aver mai fatto nulla di straordinario per essere quello che è.
Maggie Gyllenhall è una degna spalla, che non si è arresa a vivere di luce riflessa: è un peccato che due formidabili coppie viste quest’anno – la loro e quella composta da George Clooney e Vera Farmiga in “Tra Le Nuvole” di Jason Reitman – siano riuscite a portarsi a casa solo una statuetta.