Fioccano i 9 per il disco dei 1975. Stampa inglese in ginocchio, ma era prevedibile: i 4 ragazzi di Manchester sono un vanto nazionale e anche frasi balorde come ” questo disco sarà ai livelli di “Ok Computer” e ‘‘The Queen Is Dead’ ” non sono guardate con sospetto, ma anzi, i giornali ora fanno di tutto per trovare le assonanze su questo album e il terzo lavoro dei Radiohead. Niente di più sbagliato.
Vabbè, nessun problema, l’importante è che ci capiamo subito e sgomberiamo l’equivoco in cui molte recensioni cadono, parlando di un disco che segna la nuova via del rock. Ecco, questo non è un disco rock e i 1975 non sono affatto rock. Ora come ora, sono una deliziosa boy band, che ama fare un po’ di tutto (da questo punto di vista sono un gruppo perfetto per l’epoca in cui viviamo, sia nella proposta, che passa dalla ballata, al funk, all’ R’n’B, sia nel modo di porsi, sia nel look sempre in divenire, sia nell’uso dei social) e che guarda sì agli adolescenti, ma strizza anche l’occhio a quegli adulti che non ammetterebbero mai di amare i Westlife o i Boyzone (perchè troppo da ragazzine o, ormai, da MILF, le ex ragazzine degli anni ’90), però con i 1975 lo si può dire tranquillamente (perchè, in apparenza, hanno quella puntina di alternativo che pone al riparo da eventuali risate beffarde). Una canzone come “I Couldn’t Be More in Love” non è ne più ne meno che Michael Bolton che se la spassa con i Take That di “Love ain’t Here Anymore”, per non parlare della ballatona strappalacrime “I Always Wanna Die (Sometimes)” che è Ronan Keating purissimo e non lo dico affatto come se fosse una colpa, anzi, ma è giusto per contestualizzare e mettere le cose a posto (io adoro Take That e Ronan e pure Matty stravede per le boyband, non a caso chi vi scrive ha proprio fatto un duetto con lui, giuro, sulle note di “As Long As You Love Me” dei Backstreet Boys, canzone che adoriamo entrambi).
Il terzo album della formazione di Matt Healy (che ancora una volta si mette a nudo come non mai nei testi e, anzi, si spinge pure sul sociale in “Love It If We Made It”, e questo le boyband non lo fanno, è giusto dirlo) è sicuramente meglio del disco che lo ha preceduto, ne riprende ancora spunti e idee, ma ne aggiusta il tiro e sopratutto non cerca di strafare, andando a recuperare un po’ anche qualche spirito del passato (il loro primo album o addirittura i primi EP) che sembrava ormai lontano (gli anni ’80 di “It’s Not Living (If It’s Not with You)” o lo spaccato sospeso e minimale di “How To Draw / Petrichor”). Peccato che poi emerga anche qualcosa di decisamente non incisivo e non particolarmente entusiasmante, che appesantisce il tutto. Per qualcosa che funziona benino, tipo lo spirito lo-fi e scarno di “Give Yourself A Try” con questa chitarra acida che non da scampo, il pop furbissimo e stupidello (ma dio se è appiccicoso) di “TooTimeTooTimeTooTime”, la chitarra rumorosa di “Inside Your Mind” (che ci sta benissimo in quel contesto da ballata pianistica con tanto di archi) e la morbidezza jazzata di “Sincerity Is Scary”, ecco che arrivano scontati pezzi acustici, un interludio parlato o addirittura un sonnolento swing come “Mine” (pure questo classico delle boyband nel periodo in cui bisognava per forza imitare Bublè) che abbassano la media.
Morale della favola: alti e bassi che si rincorrono, ma tutto sommato un disco piacevole di questi 1975 che si confermano, al momento, la miglior boyband del pianeta. Una boyband 2.0, certo. Questo si.