L’estate è il tempo delle partenze; tempo di caricare in macchina i bagagli e lasciarsi alle spalle le assolate e grigie città . Si parte con la paura di morire giovani ed avere ancora tanto da fare, tanto da guardare. Ma partire è anche scappare, mille e più miglia lontano dalle nostre paure, che ci tengono svegli la notte; anche se il sole ci insegue ovunque; e se i nostri sbagli riescono a trovarci lo stesso, non importa quanto ci spingiamo lontano. Un vecchio cantante, senza capelli, con soltanto la sua tromba dorata, prepara i bagagli e parte alla ricerca del sole e di un posto che possa chiamare casa: nel suo giardino c’è solo l’inverno. Insieme a lui viaggiano altri esperti musicisti di Nashville e Los Angeles (Steve Cropper, Reggie Young, Spooner Oldham, Levon Helm of the Band, Tom Petersson of Cheap Trick); ma, purtroppo, la fretta con cui si è scelto di partire è stata cattiva consigliera: il momento giusto era ormai passato.
Le strade che Frank Black percorre con “Fast Man Raider Man” sono quelle di un passato glorioso, alla ricerca delle proprie radici musicali: ci sono i riferimenti al folk-rock di Neil Young (“Seven Days” e “Fast Man”), al country di Johnny Cash (“Raider Man”, “I’m Not Dead” e “Don’t Cry That Way”), al blues di Tom Waits (“End of Summer” e “Highway To Lowdown”), perfino i richiami jazz/soul (“Dog Sleep”) e rock (“In the Time of my Ruin” e “Fare Thee Well”), oltre agli immancabili paragoni con Van Morrison (“If Your Poison Gets You”, “Elijah” e “Sad Old World”). Alla fine però, sembra che la durata del viaggio (27 canzoni) abbia stancato anche coloro che l’hanno intrapreso: nelle furiose sessioni di registrazione, perpetuatesi per 24 ore di fila, è mancato il tempo per le intuizioni dei Pixies e dell’ultimo Honeycomb.
Non sempre il disco riesce ad immergerci nelle atmosfere southern gothic care a Black: per la maggior parte dei brani, si ha la sensazione che il viaggio non sia mai iniziato; e che il nostro se ne sia stato a bere birra, sdraiato sulla sua amaca, in giardino.