I Deftones sono, paradossalmente, l’unica realtà nata nel periodo d’oro della scena impropriamente detta nu-metal durante gli anni ’90 ad essere rimasta in piedi con una certa dignità . Dove quasi tutte le band sono morte nell’imitazione di sè stesse o delle band più fortunate di loro o altre si sono evolute in sbiaditi tentativi di commercializzarsi finiti nel ridicolo (i Korn?), i Deftones hanno tentato prima la svolta melodica, con un paio di dischi che iniziavano a ‘calmare un po’ le acque’ dopo la botta iniziale di “Around The Fur” e “Adrenaline”, per poi dare un “Saturday Night Wrist” di tutto rispetto, con addirittura piccoli deliri ambient e momenti di sperimentazione che hanno inevitabilmente consacrato la band come una realtà multiforme e per nulla statica. Quello che, logicamente, ci si aspettava era un disco commerciale o comunque dalle venature più intimistiche, come gli episodi più recenti degli americani lasciavano presagire. E invece ecco “Diamond Eyes”, un disco graffiante, esplosivo, dal quale non si direbbe mai che la band è invecchiata rispetto agli esordi, più simile, come indicava Chino Moreno dalle interviste, ad “Around the Fur” che ai suoi successori. E per una volta le dichiarazioni di un membro di una band riguardo ‘l’atteso album’ sono state confermate dai fatti.
Nel disco undici brani, tutti caratterizzati da un sound tagliente e un tiro incalzante, molto più di quanto ci si potesse aspettare da loro nel duemiladodici. La potenza dei riff e delle ritmiche di brani come “Diamond Eyes”, “Royal”, “CMND/CTRL” e “Rocket Skates”, tutte con quel sentore di ‘tipicamente-Deftones‘ che li rende immediatamente riconoscibili ai più, lascia veramente frastornati dopo il palpabile affievolimento arrivato con i dischi più recenti. La prima evidenzia e visualizza perfettamente tutta l’esperienza maturata dalla band, con un frontman in grande spolvero nonostante i cali di voce e uno stile che, purtroppo, ristagna molto per la poca versatilità della sua timbrica. Ma non è questo ad impedirgli di forgiare testi sempre molto criptici e linee vocali di tutto rispetto, con venature pop anche se incastonate in cornici che attingono molto più al metal che all’alternative a cui si stavano abituando.
C’è spazio anche per le incursioni melodiche, ad esempio in “Beauty School”, più lenta rispetto alla velocità media di questo lavoro, oppure in “Sextape”, che ricorda in alcuni frangenti band del periodo grunge e post-grunge, in primis Smashing Pumpkins, riempita anche da alcuni delay che questa volta i Deftones rinunciano ad utilizzare spesso, forse per non cadere nella tentazione di ripetersi troppo. I pezzi più ‘classici’, se prendiamo per standard “White Pony”, sono “976-evil” e “Prince”, che come struttura si rifanno molto a quel periodo, mentre tutto l’album è protetto da un coriaceo rivestimento ‘metallico’ come solo nei primi dischi era successo, impreziosendosi anche con alcuni tempi dispari e un uso maggiore dello screaming, lasciato piuttosto in disparte negli ultimi tre lavori.
In definitiva questo capitolo della carriera dei Deftones ci mostra una band assolutamente cresciuta, conscia dei suoi pregi e dei suoi difetti, che ha saputo, senza aver manifestato mai i sintomi dell’invecchiamento artistico, utilizzare per creare un album che è sia un sunto di tutto ciò che sono stati, che un passo in avanti, ora che hanno allontanato, e di molto, i tentativi di inabissarli che la critica aveva intentato chiamandoli ‘band venduta’ insieme a tutta la compagine nu-metal. “Diamond Eyes” dimostra che Moreno e soci avranno lunga vita, e se non diventerà un classico del genere, ci andrà vicino. Gran disco.
Credit Foto: Frank Maddocks