Ammetto che la mia attesa per sentire dal vivo gli I Hate My Village, supergruppo della scena italiana capitanato dal chitarrista Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion, Bombino) e dal batterista Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours e di recente visto sul palco di Sanremo con Daniele Silvestri) e impreziosito dalla presenza del cantante e chitarrista dei Verdena Alberto Ferrari e da Marco Fasolo (attivissimo da più parti ma soprattutto mente dei Jennifer Gentle e qui non solo produttore ma anche bassista), era davvero spasmodica.
Lo era sicuramente per la bellezza oggettiva delle 9 tracce che compongono il disco eponimo, uscito in apertura d’anno e anticipato come regalo di Natale dai due singoli “Tony Hawk of Ghana” e “Acquaragia”, ma soprattutto per la possibilità di vedere riuniti assieme sul palco quattro autentici fuoriclasse della nostra scena.
Arrivato con la dovuta calma in quel di Carpi, conoscevo già il Kalinka per aver visto altri concerti ma ho capito subito che stasera sarebbe stato diverso, perchè il nome è di quelli “caldi” e, seppur assai sperimentale, per non dire inedito per l’Italia, un progetto simile, la calca di gente accorsa nel piccolo Arci Club della provincia emiliana, era di quelle probabilmente mai viste da queste parti.
Il concerto inizia sul tardino, sono abbondantemente passate le 23 e 30 quando i 4 musicisti fanno il loro ingresso in scena e, se come me riesci a trovarti in prima fila, affermare di stare sotto il palco al Kalinka è tutto tranne che…metaforico, perchè la distanza che separa il pubblico dagli artisti è veramente minima, si diventa in pratica un tutt’uno con chi canta e suona.
L’atmosfera viene ben presto delineata, i 4 sembrano conoscersi artisticamente da sempre e nonostante portino avanti progetti diversi, è indubbia una reale e autentica affinità , non solo musicale, ma anche intellettuale, di interessi e gusti, oltre che di background.
Ci si muove e si ondeggia rapiti da un flusso sonoro inarrestabile in pezzi più urticanti ed energici, quasi funky, come “Presentiment” dove a far la parte del leone è uno scatenato Adriano Viterbini, o nella ariosa, mistica “Fare un fuoco” dove a prendersi la scena è Fabio Rondanini, che batte sui tamburi a più non posso.
Sono indubbiamente loro due, oltre che i fautori come detto del progetto, a dettare la linea e il mood dell’ensemble, ma gli egregi Ferrari e Fasolo li seguono alla grande, come nella blueseggiante “Fame” o nei due singoli già citati.
Tutti i brani sono coinvolgenti ma alcuni inducono proprio a una sorta di “trance” estatica, penso alla quasi omonima “I Ate My Village” o alla cadenzata “Tramp”. C’è spazio anche per momenti più personali e riflessivi, sempre però tenendo ben compatta l’idea di insieme e di collettività che sta alla base dell’intero progetto.
Tutto il pubblico risponde benissimo, rapito e ammaliato da suoni che ovviamente riecheggiano mondi lontani, suggestioni africane, con echi di blues e roots, non disdegnando atmosfere che rimandano all’immaginario di certe colonne sonore anni ’70 (in questo pare evidente l’influenza dei Calibro 35 di Rondanini, ormai gruppo istituzione nel genere).
L’alchimia è tale che, prima del fragoroso e atteso bis, in coda a un lungo strumentale di stampo tribale, una decina di persone salga sul palco, “invitato” dal gruppo stesso a lasciarsi andare, per ballare e muoversi sospinto dal groviglio di suoni.
Ammetto di aver voluto provare anch’io l’ebbrezza, provando pure a immortalare da posizione privilegiata col mio smartphone la stipatissima onda di folla che ha gremito il Kalinka in una serata dai contorni magici.
L’idea è che questa avventura, che sembrava nata per dare libero sfogo ai quattro musicisti fuori dalla loro “confort zone”, quasi per gioco, o per lo meno in maniera estemporanea, sia tutt’altro che un diversivo, nonostante i buoni propositi.
Visto il successo clamoroso che le varie date stanno loro riversando, con il tour che si protrarrà ancora fino a fine aprile per una decina di concerti, toccando varie zone d’Italia, da nord a sud, c’è da aspettarsi (e augurarsi) che il “gioco” avrà vita lunga, oltre che un degno seguito.
Di certo si percepisce proprio come la band sia molto unita e soprattutto che assieme sul palco si diverta un mondo a suonare.