Lascia un po’ l’amaro in bocca l’ultimo album di Ryan Bingham, una delle (tante) next big thing del country a stelle e strisce, giunto a quattro anni dal precedente e convincente “Fear and Saturday Night”.
Se quel disco, infatti, viscerale e compatto, aveva confermato appieno le premesse intraviste all’epoca del’uscita della splendida “The Weary Kind” (capace di strappare la prestigiosa statuetta quale miglior canzone originale nell’edizione degli Oscar 2009), l’idea di trovarsi davvero di fronte a un potenziale fenomeno nel genere viene ora annacquata da un disco, ottimo nelle intenzioni, ma modesto nell’esecuzione.
Intendiamoci, non suonano male queste “American Love Songs”, con cui l’autore ha voluto in qualche modo rappresentare le tante anime della sua Patria ma soprattutto le tante crepe interiori, ma a mancare clamorosamente è proprio quel senso di struggimento e di passione che invece sgorgava dai lavori precedenti.
Come se all’ancora giovane cantautore fosse già subentrata una sorta di maniera nell’approcciarsi alla propria arte, o come se, più plausibile, mirasse una volta per tutte a far deflagrare la propria musica al di fuori dei (pur vasti) confini del suo genere di riferimento.
Il risultato è che ciò che si ascolta è un country molto poppeggiante, almeno in brani come l’iniziale “Jingle and Go”, che di “polveroso” ha ben poco, o nell’ammiccante e radiofonica “Pontiac”, e privo di guizzi eclatanti pure nei momenti che virano verso il rock tipico “made in Usa” di “Nothin’ Holds Me Down” e di “What Would I’ve Become”.
Bingham gioca a mischiare le carte e dimostra di maneggiare bene la materia, attingendo a radici blues in episodi che però risultano didascalici come la conclusiva “Blues Lady” o nella sincopata “Got Damn Blues”, e non disdegnando momenti acustici come nella classica “Time for My Mind”o nella mid-tempo “Situation Station”.
Convincono di più quei brani dove il canto si fa dolente e accorato: succede nella paradigmatica “America”, in cui l’autore prova a far luce su quanto la sua Terra possa essere madre quanto matrigna, in una “Blue” resa maestosa da cori simil gospel nella seconda parte e nella sincera “Lover Girl”, caratterizzata da una piacevolissima melodia.
Le restanti, in un roster di 15, sono canzoni, ahimè, meno efficaci, che suona un po’ cattivo definire “riempitivi” ma tant’è: quella è l’impressione.
Come detto in apertura, non si mettono in dubbio le buoni intenzioni di mirare a un prodotto assai ben confezionato o di limare certe asperità del passato, ma siamo lontani dai modelli di riferimento millantati ai tempi del già citato fragoroso exploit di “The Weary Kind”, inserita con successo nella colonna sonora del film “Crazy Heart”.
Lì era possibile veramente intravedere un possibile erede di Neil Young o del Tom Waits d’antan, arrivati a questo disco sembrano lontani e azzardati anche i paragoni con i coevi e più credibili Jason Isbell e Fantastic Negrito.