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Si prenda ad esempio una sinfonia; certo le onde sonore nell’aria hanno una loro realtà ; ma il loro significato sta nella nostra percezione della musica; la sinfonia non è una proprietà delle onde sonore, nè degli strumenti musicali. Pertanto il reale è sà “reale”, ma anche in qualche modo “ideale”. E’ un’aria troppo spessa da respirare: roba da mandare giù solo per necessità , una medicina che ha perso perfino il suo disgusto. Nel caldo serale collassano soffitti appesantiti dal troppo fumo. Pelle squagliata dilegua ansie e preoccupazioni imbevendosi di blues acidi e veloci. Il piccolo club è pieno in attesa del concerto. Pochi sguardi sbattono sul muro difrònte. C’è da reclamare l’idea di un sogno, un sorso di birra gelata, uno spazio islandese che s’apra dinanzi all’intrico metropolitano. E’ questo che cerchiamo? Il punto luminoso alla fine del nero tunnel? E’ questo che disturba le tue notti Nathan? Poco importa se ti ritrovi catapultato nel mezzo del nuovo disco dei Cold War Kids. Trovare l’intuizione melodica che sbrogli la matassa incandescente pare essere il “‘leit motiv’ del secondo disco dei losangelini ragazzi della guerra fredda. Nathan Willett piazza la sua superba voce al centro di ogni canzone, mescola i Rolling Stones con Jeff Buckley, riscalda l’atmosfera andando a pescare ruvidezze e respiri profondi nel blues più intransigente; poi lascia che alle salite seguano dolci discese controllate attraverso il taglio delle chitarre ruvide e spigolose dell’elettrico Jonnie Russell. Pur mancando l’immediatezza dei brani d’esordio, “Loyalty To Loyalty” – il cui titolo è mutuato dal pensiero del filosofo californiano neo idealista Josiah Royce (1855-1916) – si mostra un album di buon livello, un manifesto di cosa possa essere il rock’n’roll al di là delle copertine di Nme e delle prese in giro che sfiorano il jingle pubblicitario. E te ne accorgi quando Matt Aveiro inizia a rullare nervoso, meticoloso e roboante sulle pelli della batteria, o quando i giri di basso di Matt Maust si fanno percussivi, spessi, fibrosi, al limite della tribalità , segno di una musica costruita e suonata dalla prima all’ultima nota per lasciare un solco più o meno profondo nel terreno. I ‘sold out’ inanellati con disarmante scioltezza in ogni singola data del tour americano, testimoniano la bontà di una band che ha bisogno di sudare tra le fioche luci del palco per tirare fuori il meglio da sè stessa. Valore aggiunto del progetto va ricercato tra le corde vocali di Willett, acidule e potenti al punto giusto, rimembranza dei saliscendi folk che portano a Tom Brousseau, catalizzatrici quanto basta per illuminare le lerce storie che prendono forma in testi mai banali. Con movenze da sgangherata orchestrina jazz collassata dopo una notte di alcolici bagordi sfilano una dopo l’altra i pezzi migliori del disco ““ “Dream Old Man Dream”, “Every Man I Fall For” e la drogata “Mexican Dogs” – fino alla delicata coda finale, che fa il paio con la Waitsiana “Roubidoux” del primo disco. Sospeso tra atmosfere claustrofobiche ed aperture armoniche, la seconda prova dei Cold War Kids conferma quanto di buono si era scorto con “Robbers & Cowards”, accrescendo ancor di più la voglia di perdersi confusi e felici tra le onde sonore di una loro infuocata esibizione dal vivo. |
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Credit: Press