Vorrei dedicare questo pezzo di scrittura implosiva (oltre che al mio amico Thom Yorke) a quel ragazzotto che un giorno mentre lavoravamo insieme discutendo di musica mi disse “Secondo me gli Aerosmith ròmpon’i’cul’a tutt’!”.
“Come con una cannuccia mi bevi l’anima” scriveva Anna in Russia e io già m’immaginavo infilzato all’altezza dello sterno da un grosso tubo alla cui estremità due labbra succhiavano con gusto. “Lo straniamento è la chiave di molte cose in letteratura” mi insegnavano, con il solo risultato che il più delle volte a stranirsi ero io: mi rifugiavo, per lo più, dentro la musica perforante di qualche indie band sconosciuta e arrabbiata con l’universo. Potevano benissimo essere i Cosmetic. Poteva benissimo essere questo album. Non è un uscita recente ma mi piaceva l’idea di recuperare qualche emozione di questa buona produzione indipendente per preparare il terreno ad un terzo album che tra poco vedrà la luce. Atmosfere romantiche, ipnotiche, alternate a un muro ruvido di rabbia che sembra provenire direttamente da Seattle.
La soffice realtà scomposta per ricucire insieme tutti i pezzi dell’amore (Phon) o la semplice acquisizione delle immagini del quotidiano raccontate in modo veloce e distorto (“Oggi nevica”). Distorsione, pianto, contusione. Dolcezza, rimpianto, evoluzione. I Cosmetic se vogliono sanno graffiare. Buon segno. “Un filo di voce sottile e incapace” ma ben consapevole di covare ancora troppa rabbia per smettere di corrodere.