di Koc
Il “viaggio di Yao” è un road movie del regista Philippe Godeau, un cineasta francese che finora ha diretto pellicole di ambientazione prevalentemente nazionale e ““ in effetti ““ anche questo film è molto “francese”: infatti, è necessario calarsi nella realtà transalpina per capire e gustare appieno il messaggio che l’autore intende proporre.
Il protagonista è l’attore di colore Omar Sy, divenuto famosissimo anche all’estero per il bellissimo “Quasi amici” del 2011. Sy in patria ha l’etichetta di comico dirompente e in questo film è stato chiamato a fare il classico salto di qualità di fronte agli occhi dei connazionali: Sy è senegalese da parte di padre e la trama lo coinvolge nella visita al paese d’origine, in una specie di percorso di formazione a ritroso.
Ne “Il viaggio di Yao” Sy è Seydou Tall, una star del cinema, nato in Francia da famiglia senegalese. Separato dalla moglie e con un figlio piccolo che vede poco, decide di andare in Senegal sull’onda di un’autobiografia di successo.
A Dakar incontra Yao, un ragazzino di tredici anni dall’aria intelligente e risoluta, venuto da 400 km di distanza – di nascosto dai genitori – per ottenere un autografo dell’attore, idolo di un suo amico di scuola; amico che doveva seguirlo, ma che all’ultimo dà buca a Yao, costretto perciò a farsi il viaggio da solo. Seydou è colpito dall’intraprendenza del bambino e decide di mollare il tour promozionale per riaccompagnare Yao a casa.
Da questo momento inizia il viaggio. Man mano che la pellicola avanza, notiamo la triste e spettacolare bellezza del Senegal, nonchè la sincera presentazione delle contraddizioni dei suoi abitanti. Abbiamo idee stereotipate sull’Africa e ““ ultimamente ““ la politica vorrebbe farci immaginare quel continente come un ambiente unico, ove rimandare indietro persone al pari di pacchi di Amazon difettati. Nel film, invece, vediamo la realtà : il caos di una metropoli come Dakar, periferie e strade polverose con macchine scassate che per i senegalesi hanno ancora valore, ma anche paesaggi rurali mozzafiato e l’immensità dell’oceano.
Molto più francese è il focus messo sull’attore protagonista, visto come nero in Francia e ““ paradossalmente ““ come bianco in Senegal. Sy-Seydou attraversa tutto il paese guidando una Peugeot modello catorcio e indossando vestiti lisi. Eppure, tutti si rendono conto che è un nero ricco trapiantato in Europa: è il suo atteggiamento, oltre al meraviglioso Audermars Piguet esibito incautamente al polso, a renderlo diverso dai locali. Sia lui che noi non siamo sintonizzati sul tempo di questa parte dell’Africa: un tempo che scorre molto più lento e che ci chiede di guardarci attorno e dentro, piuttosto che correre in continuazione.
E questo aspetto è sia il pregio che il difetto del film, perchè la storia scorre davvero lentissima e in modo apparentemente scollato, con incontri casuali che non portano a nulla se non a fugaci conoscenze: incontri che comunque fanno crescere umanamente Seydou e che eleggono il giovane Yao a maestro e guida di viaggio per la stella del cinema: un deus ex machina che mentre ricuce libri danneggiati e disegna la storia del percorso per il figlio di Seydou, riesce a ricucire anche l’anima strappata dell’uomo e a disegnarne un futuro diverso.
“Abbiamo lasciato passare il tempo, quello africano, che non passa mai“, si sente alla fine del film. Per il protagonista adulto, l’arrivo al paese di Yao è un punto di partenza, in un luogo in cui il tempo pare essersi fermato.
Non da qui, ma proprio questo momento la sua vita potrà ricominciare.