La breve ascesa di una delle figure più geniali e malinconiche della musica dark new wave, Ian Curtis, leader dei Joy Division, morto suicida a soli 23 anni.
In un contrastato bianco e nero che per Corbijn è diventato una sorta di marchio di fabbrica, scorrono sullo schermo gli ultimi sette anni di vita di Ian Curtis, dai sobborghi popolari di Manchester, a Macclesfield, fino alla vigilia del tour dei Joy Division negli Stati Uniti, prendendo spunto dal libro scritto dalla moglie Deborah Woodruff Curtis, “Touching From A Distance”, che ha collaborato anche alla sceneggiatura e alla produzione del film.
E’ difficile staccarsi dalla visione di questo film, perchè gli occhi rimangono impastati della lucida seduzione provocata dallo sguardo dolente di Sam Riley divenuto perfettamente Ian Curtis, dai suoi gesti sul palco, balletti improvvisati, marce di guerra che sfociano nella pazzia e nella ribellione, e le orecchie avvolte da una voce e da una musica che neanche volendo si riescono a dimenticare, che mettono in subbuglio il cuore e l’anima, fin nei loro recessi più profondi. “Control” non scava nella biografia più scadente del personaggio, non indugia nel pettegolezzo o nel sensazionalismo, è un film asciutto, aspro per molti versi, che si avvicina all’oggetto della sua narrazione in modo quasi sacro. Racconta le contraddizioni, la malattia inarrestabile, la depressione, l’amore, la musica di Ian Curtis, senza sbavature, senza eccessi nè autocompiacimenti. Lo fa in modo sommesso, a volte ironico e divertente, soprattutto nella parte iniziale, in cui la band, che si chiamava ancora “Warsaw”, muove i primi passi nella scena musicale di Manchester. In ogni sequenza si respira l’atmosfera di un’Inghilterra proletaria, giunta alle soglie del thatcherismo: case di mattoni, interni spogli al limite della povertà , droghe fatte in casa miscelando medicinali rubati dai vicini, lavori con cui a malapena si riesce a tirare avanti, in cui ormai il nichilismo del punk è sotto gli occhi di tutti e di glam nel rock è rimasto ben poco. Ian, influenzato da questo contesto, formatosi ascoltando David Bowie e leggendo i poeti del Romanticismo inglese, si rivela un artista precoce e talentuoso, capace di portare la sua band, grazie ad un sound innovativo ed ipnotico, in pochi anni, all’attenzione del pubblico europeo, ma il sogno si infrange in breve tempo. Egli perde progressivamente il controllo della sua vita e a questo sembra alludere il titolo, nonchè ad una sua famosa canzone “She’s Lost Control”, ispirata a Curtis dalla morte in seguito ad una crisi epilettica di una ragazza che conosceva personalmente. Il crescente impegno dei tour e dei concerti lo prostrano oltre ogni limite, anche perchè sul palco non si risparmia, si dona, si svuota completamente, tanto che lo spettro dell’epilessia che scandisce tristemente la sua breve esistenza, lo raggiunge anche durante le esibizioni. Tra una crisi e l’altra e i mille medicinali per scongiurarle, Curtis si trova inoltre incapace di sostenere il peso doloroso dei sensi di colpa per il suo matrimonio fallito, contratto in adolescenza in modo avventato ed impulsivo, che neanche la nascita di una figlia e in seguito, la relazione con la giornalista Annik Honorè, riescono a lenire. Il giovane, dopo l’ennesimo attacco epilettico e un nuovo contrasto con Debbie, dalla quale si sta separando, decide di porre fine alla sua vita. Alla vigilia della consacrazione dei Joy Division negli States, all’apice della carriera. In silenzio e in solitudine, Ian Curtis si consegna all’immortalità , lasciando al mondo tre album e un pugno di canzoni, in cui si nascondono degli autentici capolavori.
“Control” è un biopic abbastanza tradizionale nella sua struttura narrativa, niente a che vedere con la sfaccettata complessità di un film come “I’m Not There”, eppure riesce a mantenere compattezza ed intensità in ogni immagine, e grazie anche alla scelta del bianco e nero, sembra collocarsi con la sua purezza, in un tempo altro, quasi mitico, nonostante i puntuali riferimenti storici e culturali. Pur essendo un veterano del videoclip, Corbijn, che ha lavorato con gli artisti più importanti della musica contemporanea, e può vantare storiche collaborazioni con U2, Depeche Mode e naturalmente New Order, nati dalle ceneri dei Joy Division, filma in modo ineccepibile, raffinato, senza lasciarsi prendere la mano, e con grande rigore formale padroneggia alla perfezione il suo film, senza però che risulti un’opera raggelata. Questo lo si deve anche alle interpretazioni dei due protagonisti, Samantha Morton e soprattutto Sam Riley a cui è affidato l’arduo compito di reinterpretare le canzoni dei Joy Division, con un risultato davvero soddisfacente. E soprattutto ad alcune scene che si dimenticano difficilmente: ad esempio, la camminata all’alba di Debbie e Ian quando ormai tutto tra loro sta inevitabilmente svanendo, scandita da Love will tear us apart, ed è realmente impossibile trattenere la commozione davanti alle ultime immagini, in cui il dolore e la costernazione di chi lo aveva amato, sono accompagnati dalle note di Atmosphere. E allora verrebbe quasi da sussurrarne il ritornello come una preghiera, ancora una volta, l’ultima -se solo servisse”…- don’t walk away, in silence”… don’t walk away.