Ricordo nitidamente di aver letto (altrove, à§a va sans dire) un paio d’anni fa una recensione, composita nel lessico quanto scevra di particolare argomentazione tecnica, dell’ultimo album degli Slowdive, la cui storia è per alcuni versi molto simile a quella dei Ride: autentici portabandiera (se non direttamente inventori) dello shoegaze, dopo un lungo periodo di silenzio si erano riproposti sulla scena con un lavoro sulla lunga distanza. Gli si additava, largo circa, di non essere al passo coi tempi, di fare ancora la stessa musica, di cogliere solo l’aspetto nostalgia. Beata ignavia, pensai subito quando invece andai ad ascoltarlo. Come se davvero chi hai amato per quello che sapeva fare con incredibile maestria, adesso dovesse giocoforza innovarsi e sorprendere, o ancora peggio stare al passo con i tempi, visto poi come sono, i tempi che corrono. Come se, per esempio per i Ride, un disco come “Nowhere” fosse più un fardello che un evidente quanto fisiologico termine di paragone.
Signori, il paragone con “Nowhere” (o con “Going Blank Again”) sarà sempre lì. Di più, per gente come i Ride, è doveroso che ci sia.
Ritrovato l’affiatamento, e con il fido Alan Moulder ancora al missaggio ed Erol Alkan in cabina di produzione, i Ride avevano già reimboccato il sentiero con “Wheater Diaries” un paio d’anni fa, e questo “This is Not a Safe Place” arriva quindi come una necessaria conferma sullo stato di salute della band di Oxford, che già nelle intenzioni aveva dichiarato di volersi riavvicinare alle traiettorie dei loro lavori più amati (la copertina, in tal senso, è più che un richiamo proprio a “Nowhere”): un passo indietro o addirittura un rifugio quasi per una questione di sopravvivenza?
Fatto sta che, per dimostrare di essere vivi, non c’è cosa migliore che mostrare subito i nervi con la noisy e graffiante apertura demandata a “R.I.D.E.”, una sorta di entrance forse evitabile nel contenuto, alla quale fa seguito però una “Future Love” che riporta subito in territori più amici, trait d’union naturale tra questa seconda vita e i lavori di ormai quasi 30 anni fa.
“Repetition” atterra su lidi più anni ’80 (e DEVO) tra synth e chitarre che si intrecciano, mentre “Kill Switch” parte meccanica alla batteria per poi schiacciare sul distorto, con risultati però non memorabili: meglio la sognante e fiabesca “Clouds Of Saint Marie”, che al netto di una struttura creativa non certo originale, mostra però un buon tocco e sentimento, funzionale soprattutto come delicato richiamo a giorni andati, con la voce zuccherina, soave ma mai fragile di Gardener che supporta anche la successiva “Eternal Recurrence”.
“15 Minutes” non pare essere portatrice di particolare valore aggiunto (al netto delle bordate di Bell all’elettrica) e, come “Jump Jet”, sembra quasi un riempitivo. Più felice (e furba) la mossa di rimbracciare l’acustica in “Dial Up” ed “Shadows Behind The Sun”: ma a fronte di una prova di ricercata ecletticità , a mancare è lo spessore. E così la scelta invece che accrescere il valore del lavoro in termini d’ispirazione, finisce per dare come la sensazione di voler mettere eccessivi accessori agli ambienti sonori. Trop meublè.
Nel mezzo, “End Game” appare piuttosto asettica ed anodina, per quanto mostri assoluta padronanza nel saper giocare ancora con i pedali. Così, anche la lunga chiusura affidata a “In This Room”, forse il passaggio più interessante del lotto con il suo fluttuare e i suoi bagliori, arriva quando si respira ormai troppa stanchezza accumulata.
Va detto, prendete tutto con le cautele del caso: ad avercene di album così oggi. E di gente come i Ride in giro, noblesse oblige. Di più, la carrozza è comunque quella giusta, al netto di come viene adornata e spinta: e anche questo, non è poco.
Ma quando, come detto in apertura, i termini di paragone sono lavori che hanno fatto la storia del settore, è probabilmente lecito, se non umano, aspettarsi qualcosa che se non squisitamente eccezionale, possa essere degno di futura memoria: e questo “This Is Not a Safe Place”, purtroppo ed eccezion fatta per alcuni passaggi, corre il concreto rischio di non esserlo.
Photo: Steve Gullick