E’ italianissima, ma non lo diresti mai, almeno riferendosi alla sua musica e al suo universo di riferimento.
Alice Bisi – che a nome Birthh esordì egregiamente nel 2016 con un album all’insegna di un intimo e fulgido dream–folk – prosegue nel suo interessante percorso, mostrando di avere le idee chiare e una piena consapevolezza di sè e della sua arte.
“Whoa”, più che un grido primordiale, assume le forme di un delicato sussurro, che si dipana rassicurante e tiepido lungo le varie tappe (11 contando tre deliziosi frammenti) di un cammino che potrebbe veramente portarla a vedere da vicino quegli artisti di caratura internazionale a cui viene spontanea accostarla.
Se all’epoca del suo debutto discografico – molto casalingo e genuino – sembravano i Daughter i numi tutelari, adesso lo spettro musicale si è ampliato e spostato più su territori soul-elettronici, basta vedere gli illustri nomi che hanno lavorato con lei al disco.
Pur mantenendo quell’alone da cameretta (letteralmente, visto che ha allestito il suo studio a casa), è anche vero che i lavori li ha ultimati a New York, affiancata da Lucius Page (uno che le tastiere li mette al servizio di una certa Solange) e dal premio Grammy Robert LB Dorsey, e ciò si è riflettuto a livello di produzione, per cui si può spendere a ragione l’aggettivo internazionale, senza per una volta abusarne.
E’ indubbio che brani come l’iniziale, magnetica “Supermarkets” (uscita con largo anticipo quasi sei mesi fa), o l’onirica “Yello/Concrete” abbiano goduto del sound tipicamente americano che caratterizza alcuni dei migliori lavori di pop contemporaneo (non ci suona come un’iperbole); per non dire della frizzante e solare “Ultraviolet”, in cui è intervenuta brillantemente Ivy Sole, una delle più promettenti nuove principesse dell’ hip hop/r’n’b a stelle e strisce.
Ma se ci sembrava doveroso citare i nomi degli ospiti, da rimarcare è soprattutto il talento scintillante che sgorga dall’animo della ventiduenne cantautrice fiorentina, che mostra di sapersi misurare ad armi pari con le colleghe d’Oltreoceano, conquistandosi sul campo i riconoscimenti di cui gode.
Birthh attraverso canzoni gentili, baciate molto spesso da una grazia autentica, è in grado di regalarci il suo mondo interiore: le vette si raggiungono nell’acustica e nostalgica “Parakeet” e nella più sofferta “Human Stuff” ma tutto il disco ci appare come una salutare boccata d’aria, quanto mai necessaria in tempi come questi.
Peccato che in Italia forse non siamo ancora pronti a premiare le qualità di una musicista che ha davvero qualcosa di interessante da dirci e che antepone la musica a tutto il resto.