E così giunse anche il momento di Ed O’Brien, quarto elemento in forza ai Radiohead a esordire da solista. Una band geniale che, inevitabili detrattori a parte, ha dimostrato come si possa felicemente accomunare alla longevità anche una continua evoluzione, seguendo strade inesplorate senza sedersi sugli allori.
Un gruppo ben guidato dal suo leader Thom Yorke (che difatti anche in veste solista non si sta facendo mancare niente in quanto a sperimentazioni) ma che ad ogni uscita individuale dei vari componenti, mostra quanto sia inevitabilmente la somma di più talenti.
Se nell’immaginario – ma anche nella realtà dei fatti – il contraltare di Yorke è soprattutto Jonny Greenwood, anch’egli alle prese con incursioni felici nel mondo delle colonne sonore e compositore d’avanguardia, a compiere i primi passi da solo ci pensò pure il batterista Phil Selway, autore negli anni di due lavori dalle deliziose venature folk pop.
Ci si aspettava però anche il debutto di Ed O’Brien, perchè, diciamocela tutta, con la svolta artistica seguita alla pubblicazione di un epocale album come “Kid A”, è sempre parso quello più penalizzato dal punto di vista musicale, laddove fino a “Ok Computer” la sua chitarra faceva egregiamente la propria parte, sia in studio sia soprattutto negli infuocati live.
Si sa inoltre che egli fu l’ultimo ad approvare di fatto la rinuncia in studio a una composizione “formale” di canzoni che prevedevano invece soluzioni nuove, dove il suo strumento principe sarebbe stato in pratica relagato in secondo piano rispetto ad altro. Da buon gregario però, un gregario dai piedi buoni (usando una metafora calcistica) il Nostro, messo da parte le timide ritrosie, si è trovato poi pienamente assorbito nel nuovo corso, senza magari averne l’ossessione di Thom e Jonny ma divertendosi infine a creare in maniera più libera e autonoma.
L’annuncio di un nuovo album (a proposito, all’appello ormai manca solo il bassista Colin Greenwood) era stato dato diverso tempo fa e nel frattempo O’Brien, già all’uscita dei primi singoli, aveva lasciato intendere che ci saremmo trovati dinnanzi a un lavoro estremamente composito e particolare.
Le nove tracce che contengono “Earth”, uscito con l’acronimo EOB, alla fine confermano l’impressione data qualche mese fa da un brano come “Shangri- La” (che apre la scaletta in maniera convincente): si tratta davvero di un album difficile da collocare fossimo in uno di quei negozi specializzati che tanto piacciono agli appassionati.
C’è del rock, finalmente verrebbe da dire, ci sono delle suggestioni wave ed elettroniche, ci sono inevitabili echi del gruppo madre (proprio nella canzone posta in apertura), e ritmi che, come in un ottovolante, si fanno cangianti sapendo rallentare al bisogno ma anche graffiare e pulsare fortissimo (prova ne è l’incalzante “Olympik”).
In particolare a svettare a mio avviso, proprio per l’eterogeneità e le tante facce che ci mostra disseminate negli otto e passa minuti di durata, è la canzone “Brasil”, che inizia lentamente a mo’ di ballata acustica dalle tinte folk memori della lezione di Nick Drake, per poi planare letteralmente nella seconda parte, trasportandoci lontano. Sembrano più canzoni in una ma per una volta l’effetto non è assolutamente straniante, anzi.
“Deep Days”, che la segue in scaletta, ha un ritmo ipnotico e procede senza particolari sussulti fino a “Long Time Coming”, quella sì poggiata interamente sulla sua amata chitarra acustica.
“Mass” è invece uno di quegli episodi ondivaghi che possono ricordare i Radiohead (altezza “In Rainbows, per capirci), mentre con la successiva “Banksters” O’Brien si leva la maschera e conferma di non aver smarrito la vena graffiante, con le chitarre che ruggiscono e i toni cupi e affilati che sgorgano a piene mani dalla sua sei corde.
“Sail On” giunge placida come un’oasi a spezzare l’onda emotiva, prima di fiondarsi nella giù citata “Olympik”, in cui affiorano le tante anime di un artista che moriva dalla voglia di mettersi a nudo e consegnarci qualcosa di sè, senza ansie da prestazioni legate a numeri e classifiche. Un artista che, pur non tradendo mai lo spirito di gruppo, fedele a dettami che si era trovato poi favorevolmente a condividere, sentiva l’esigenza di veicolare brani che con ogni probabilità non avrebbero visto la luce all’interno del gruppo.
Il congedo del buon Ed avviene con “Cloak of the Night”, una ballata a due voci intensa ma eterea allo stesso tempo che vede il contributo della cantautrice Laura Marling, suo spirito affine.
Che dire in conclusione di questo disco? La risposta è che Ed O’ Brien, senza tanti proclami o squilli di tromba, ha realizzato un album assolutamente interessante e a suo modo sorprendente, qualcosa di molto più rispetto a uno sfizio da ricco musicista annoiato. E di questo gli siamo enormemente grati.
Photo: Yasuko Otani [CC BY-SA]