L’asfalto bagnato ci ricorda che l’autunno è ancora una volta una realtà ; nuvole ormai svuotate del loro carico corrono veloci verso l’orizzonte, in fondo a questa striscia di asfalto, là dove il cielo pallido del primo mattino si congiunge alla terra fondendosi con essa tra la nebbia grigia e densa dell’alba. I programmi di merda in tv e le giornate sempre più corte non lasciano dubbi, non è più tempo di passeggiate sulla battigia e birre fredde in bicchiere di plastica ai concerti. Settembre è un mese triste e malinconico, non c’è via di scampo…
Poche auto intorno, la città ancora dorme: tra poco questa tranquillità svanirà come la bruma mattutina, divorata da un infermale caos di sferragliamenti clacson fumi semafori precedenze doppiefile imprecazioni e troppa luce; ma adesso questa visione momentanea e quasi sospesa nel torpore mattutino mi apre la strada alla piena comprensione dell’ultimo Blonde Redhead che scorre liscio dall’autoradio nell’abitacolo, dissolvendosi in nulla come il fumo di una sigaretta attraverso lo spiraglio lasciato aperto dal finestrino, via nella brezza fresca.
Non è un album facile, “Penny Sparkle”: lascia spiazzati fin dai primi istanti, e magari se ascoltato in situazioni non ottimali fa persino storcere il naso. Perchè non vi si trovano più quelle dissonanze ‘soniche’ che, seppur compresse e addomesticate come in “23”, erano state un marchio di fabbrica del trio italo-nippo-newyorkese a partire dai primi lontani passi, sette dischi fa. Pezzi tesi e memorabili come “Spring And By Summer Fall” sembrano quanto mai distanti, eppure “Penny Sparkle” è nient’altro che la sublimazione di un processo iniziato almeno con “Misery Is A Butterfly”, il bistratto – a torto – album della svolta pop, se non ancora prima. Riposte le chitarre, sono ora loop di batteria elettronica e intrecci di sintetizzatori vari a tessere la fine trama su cui si spande la voce eterea di Kazu, qui più che mai misurata ed elegante, ma al contempo vero e proprio cardine di nove composizioni su dieci (fa eccezione “Will There Be Stars”, anello di congiunzione col passato, in cui Amedeo Pace è solo dietro al microfono). Le sessioni di registrazione tra New York e Stoccolma, e la produzione di Van Rivers e Subliminal Kid, già con Fever Ray e Massive Attack, sono elementi che si riflettono pesantemente sull’atmosfera complessiva di un album che passa dal quasi trip-hop di ‘Oslo’ al synth-pop scuola Depeche Mode in “Not Getting Here”, con frequenti incursioni in area electro-eighties e dream-pop.
Al di là di alcune parentesi troppo cerebrali, a voler trovare una pecca nel disco qualcuno vi potrebbe parlare della mancanza di veri e propri guizzi, dell’assenza di quel ‘genio e sregolatezza’ che segna lo stacco tra un buon disco ed un capolavoro. Non nego di essere stato vittima anche io delle stesse perplessità , poi dissipate, dopo i primi ascolti di certo un po’ distratti. Qualcuno vi dirà che si tratta di un disco di ‘musica da sottofondo’, qualcun’altro che i Blonde Redhead sono al capolinea, o ancora che il gruppo non ha mai avuto molto da dire: ma provate a farvi avvolgere e trascinare per un istante dalle melodie di pezzi come “Black Guitar” nella tranquillità del primo mattino, o nella quiete immobile che segue un acquazzone autunnale, e vedrete che ve ne innamorerete perdutamente.