Il 2020 è stato un anno ricco di impegni per i Green Day. E questo nonostante l’emergenza sanitaria che continua a tenere in scacco l’intero pianeta. Se da una parte la pandemia li ha costretti a dover posticipare il mega tour mondiale in compagnia di Weezer e Fall Out Boy, dall’altra ha concesso loro la possibilità di ritagliarsi del tempo libero per tornare a lavorare in studio e recuperare vecchi progetti mai finiti. Negli ultimi dodici mesi infatti il trio californiano ha dato alle stampe non uno, ma ben due album contenenti canzoni nuove di zecca.
A febbraio il garage rock sovraprodotto del brevissimo “Father Of All”…” ha sorpreso e deluso un po’ tutti, raccogliendo critiche a destra e a manca malgrado la presenza di diverse tracce godibili. Ora che è arrivato il turno di questo ancor più spiazzante “Money Money 2020 Part II: We Told Ya So!”, c’è da chiedersi quali saranno le reazioni dei fan duri e puri della band. Ma più che altro la domanda è: in quanti si saranno accorti dell’uscita di questo disco? Probabilmente solo quelli che conservano un briciolo di memoria della fugace esperienza dei The Network, il misterioso side project dei Green Day sbucato fuori dal nulla nel lontano 2003.
Dopo quindici anni di silenzio Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt e Trè Cool hanno rispolverato l’antico moniker dimenticato, tornando a celare le loro vere identità dietro le maschere di Fink, Van Gough e The Snoo. Anche questa volta, come avvenne nel caso del convincente esordio “Money Money 2020”, a fargli compagnia ci sono tre collaboratori (Z, Captain Underpants e Balducci) le cui effettive generalità restano ignote o quasi. Il sestetto gioca molto con l’aura di enigma che li circonda ““ anche se ormai è da tempo un segreto di Pulcinella ““ per rendere leggermente più interessante una proposta musicale racchiusa negli angusti confini dello scherzo senza pretese.
La new wave in stile Devo dei The Network sa divertire e, a tratti, impressiona in maniera positiva. Fa un certo effetto ascoltare la riconoscibilissima voce di Armstrong sepolta sotto le tonnellate di synth di “Fentanyl”, un bel brano orecchiabile che inizia con un corposo giro di basso costruito seguendo il nobile esempio dei classici post-punk. Il frontman dei Green Day non ha problemi a fare una buona figura negli episodi più tradizionalmente rock dell’album, ovvero quelli in cui la chitarra è lo strumento protagonista (“Theory Of Reality”, “Cancer Is The New Black”, “Threat Level Midnight”, le digital-ramonesiane “Ivankkka Is A Nazi” e “Carolina’s Ultimate Netflix Tweet”). Più intrigante però sentirlo mettersi alla prova con la dance punk di “Degenerate”, “Popper Punk” e “Jerry Falwell’s Pool Party”, tre canzoni dal tiro micidiale anche se non originalissime.
Peccato non sia lui il cantante principale dei The Network. Nella maggior parte dei casi, infatti, a dividersi il microfono sono Mike Dirnt e Trè Cool, cui va la colpa ““ o il merito, se siete amanti delle burle ““ di tenere alto il vessillo della parodia. I due non hanno un timbro diversissimo per quanto, in entrambi i casi, si sia al cospetto di forzature abbastanza fastidiose. Entrambi scimmiottano i leggendari baritoni di Peter Murphy e Andrew Eldritch, in reinterpretazioni però talmente artificiose e “cartoonesche” da risultare stucchevoli.
A loro naturalmente spetta il compito di regalarci le parentesi più ironiche e leggere del lavoro: da non perdere “Asphyxia” (chiari i riferimenti a “Enola Gay” degli OMD), “Flat Earth”, “Heard Immunity” e “Respirator”, un’amara riflessione sulla stupidità di chi crede che il COVID 19 sia un complotto e poi magari si ritrova in ospedale con un tubo infilato in gola (I’m on a respirator/I’m about to meet my maker/I used to be an anti-mask crusader/But now I’m on a respirator).
Una cosa è certa: così come “Father Of All”…”, questo “Money Money 2020 Part II: We Told Ya So!” non passerà agli annali. Prendetelo per quello che è: il divertissement più o meno riuscito di tre rockstar annoiate che, per sopravvivere al tedio da quarantena, si sono messe a giocare con tastiere e drum machine. C’è da dire, tuttavia, che lo scherzo è bello quando dura poco. Venticinque tracce per cinquantacinque minuti di durata? Veramente troppo per un disco del genere.