Meglio fare qualche brevissima riflessione e considerazione, prima di recarsi ad un concerto di un gruppo come quello dei The Coral.
Innanzitutto, essere convinti e consapevoli che non ci aspetterà nulla di innovativo. I nostri sono ormai tra i migliori rappresentanti della riproposizione di un suono marcatamente sixties, figlio, illegittimo forse, dei migliori Byrds, con tutto il corollario di cori, chitarre e caschetti che ne deriva. Ma, da inglesi quali sono, meglio non aspettarsi fuoco e fiamme, quanto piuttosto una cool-britness che, pur lontana dallo snobismo e dalla freddezza, lascia poco spazio a visceralità e trasporto. Lontani, insomma, gli anni del punk e della ‘white riot’. Nessun animale da palcoscenico e nessuna urgenza comunicativa. Molto mestiere e indubbiamente molta abilità . Infine, aggiungiamoci la nomea del locale che, purtroppo, sta cercando di togliere ai Magazzini la palma di peggior locale della città in cui godersi, live, il proprio gruppo preferito. Così, al pari con l’umidità esterna, per le giornate di pioggia in linea con la stagione autunnale, la temperatura tropicale interna ha reso l’esperienza del concerto quanto di più simile ad una sauna mi sia capitato di recente. Dopodichè a fine concerto, più fradici che umidi anche senza buttarsi in improbabili sfrenate danze, di nuovo fuori a godersi la temperatura notturna ormai vicina a quella invernale.
A scanso di equivoci, però, vi avverto subito che, se non eravate tra il pubblico abbastanza numeroso, vi siete lasciati scappare un ottimo concerto. I nostri cinque ragazzi hanno dato prova, sin dalle prime note, delle loro ottime capacità canore ed esecutive, regalandoci una scaletta che, cucita attorno alle migliori canzoni dell’ultimo “Butterfly House”, non ha trascurato qualche ripescaggio dal loro ormai lungo passato.
Più ricercati e maturi i nuovi pezzi, più immediati ed amati dal pubblico quelli passati, accolti da cori e sottolineati dall’entusiasmo di qualche accenno di danza. James Skelly, attaccato al microfono, si è limitato a snocciolare i brani uno dopo l’altro, con mestiere e abilità , concedendo solo qualche breve pausa per ricordare il titolo del pezzo successivo e lasciare così il tempo per i continui ed incessanti cambi di chitarra di Lee Southall. Ottimo elemento, visto che ha indubbiamente reso giustizia della dozzina di chitarre pronte per lui in bella mostra a lato del palco. Alcuni suoi assoli sono sicuramente stati tra i momenti migliori della serata, lontani anni luce dal trasporto e dal nichilismo di un navigato showman, ma indubbiamente un ottimo spiraglio sulle future potenzialità del gruppo.
In linea con le passioni dei ragazzi le due cover proposte, omaggio agli Who ed ai Byrds, sicuramente tra i riferimenti più evidenti del loro suono. Un’ora e mezza di concerto alla fine, con una scaletta che ha cercato di proporre il meglio del nuovo disco, dalla partenza con “More Than A Lover”, passando per la bellissima “Jacqueline” e la sognante “Green Is The Colour”, senza trascurare passati successi, uno per tutti il “‘tormentone’ “Dreaming Of You”, e sinceri omaggi, dovuti e dichiarati.
Cosa non affatto trascurabile, in tempi di appropriamenti indebiti e reiterati!
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Photo Credit: CharlotteWebb (CC BY 2.0)