Sintetizzatori ben orchestrati, chitarre taglienti e sezione ritmica con bassi roboanti e batteria pulsante d’ordinanza. Insomma, ricco e completo si presenta il menu di questo “Lifeboat Candidate”, quarta fatica degli statunitensi Palm Ghosts, uscito il 19 marzo scorso e fa seguito all’ottimo “Architecture” del 2018.

Il marchio di fabbrica della band di Nashville è sicuramente figlio di quel post-punk d’origine macuniana vicino a Joy Division dunque anche se il collettivo del deus ex machina e membro fondatore Joseph Lekkas riesce a regalarci, nelle otto tracce di cui si compone questo nuovo lavoro, trentasei minuti di ottimo new wave a tinte eighties, decisamente più dark del precedente e citato “Architecture”.

Chiari, quindi, i riferimenti a New Order, Echo and the Bunnymen ma il gruppo del Tennessee – che si completa, oltre alla voce ed al basso di Lekkas, il quale ha inoltre prodotto, registrato e mixato l’album presso il Greenland Studios di Nashville, anche dagli ottimi Benjamin Douglas (chitarra e tastiere), Jason Springman (chitarre) e Walt Epting (batteria) – non ha paura di affrontare similitudini più recenti e, come detto in precedenza, che si avvicinano al sound d’oltremanica in tutto il full-length.

Non stupisce allora quando sembra di ascoltare i White Lies con l’elettrizzante traccia d’apertura “Blind” alla quale fa seguito la successiva “Easy Math” che pure non si discosta dall’opener, ma questa volta i toni si fanno più dark. Leitmotiv che prosegue con la psichedelica “The Kids” almeno fino a “Revelation Engines” dove echi The Cure, sponda “Faith” e “Pornography”, fanno ingresso nel pattern ben disegnato dalla band che vira su territori di Editors memoria nella bella “Carry The World”,   sorretta da una decisa melodia su di una incalzante ed insistente batteria con riff di chitarra a ricordare qualcosa di The Edge.

Nei tempi odierni la platea del post-punk risulta decisamente vasta e probabilmente satura e, quindi, un plauso va fatto ai Palm Ghosts che, pur non aggiungendo nulla di nuovo al genere, hanno saputo ritagliarsi il loro spazio da cui poter osservare con delizia questi otto episodi che raggiungono l’apice nel trittico finale formato dalla title track tanto spigolosa quanto morbida nel refain, dal psycho-dance di “The Perfect Tool” e, soprattutto, dall’electro-pop-rock di “The Dead Inside” dove un tripudio di synth sancisce la chiusura dei giochi.

Questo nuovo lavoro dei Palm Ghosts conferma la qualità  della band statunitense e vi spingerà  a rispolverare i loro vecchi capitoli. Ne vale la pena.