E’ un ritorno tanto gradito quanto atteso quello dei Manchester Orchestra, visto che a detta del sottoscritto furono protagonisti col loro precedente lavoro nel 2017 (“A Black Mile to the Surface”) di uno dei dischi più belli di quella stagione musicale, tanto da finire nel mio personale podio.
Parentesi personale a parte, è indubbio che proprio all’altezza di quell’uscita discografica Andy Hull e compagni avessero compiuto il tanto sospirato salto di qualità , che adesso doveva necessariamente essere confermato.
Direi che già dall’ascolto dei primi estratti le sensazioni erano vieppiù favorevoli, non discostandosi in fondo così tanto a livello stilistico da chi era venuto prima, ma la prova del nove è sempre quella dell’album.
“The Million Masks of God” asseconda la curiosità sin dall’enigmatico (e provocatorio) titolo e vuole essere già programmatico, nonostante i concetti esaltati fra le liriche riguardino più da vicino le cose “terrene”, la realtà di oggidì a cui viene auspicato un futuro migliore, anzichè quelle celestiali.
Si confluisce infatti (come da copione ormai consolidato) in un versante sognante e immaginifico più che attingere a una sfera privata e intimista
Il tratto epico rimane preminente, fa parte della poetica e dell’interpretazione dei nostri, e non tiene conto solo del particolare e intenso cantato di Hull ma anche dell’apparato musicale che fa sì che del “semplice” indie rock divenga molto più sfuggente e difficile da incasellare, con i suoi rimandi emo, math e persino folk, come non si sentiva da tempo fra i solchi delle loro canzoni.
La doppietta iniziale ricorda i toni accorati del disco precedente, eterea l’iniziale “Inaudible”, più carica di pathos ed elettricità la successiva “Angel of Death”, alla quale appartiene inoltre uno dei ritornelli più ficcanti dell’intera opera.
“Keel Timing” presenta una ritmica decisamente più serrata ma non convince del tutto; mi duole dirlo perchè a conti fatti è l’episodio che tenta maggiormente di smarcarsi dal passato, tuttavia forse non è il registro sonoro più adatto alle loro corde. “Bed Head”, che pure accelera sul campo del rock elettronico, si mantiene invece più fruibile e lieve.
Procedendo in scioltezza alla fine della prima facciata, ci si imbatte nel binomio più interessante del lotto, composto da “Annie” e “Telepath”, entrambe contraddistinte da un sound più riflessivo e maturo, passatemi il termine. In particolare la seconda colpisce per la semplicità e la raffinatezza compositiva, quasi a liberarsi degli orpelli per puntare alla sostanza.
Sono memorabili gli arpeggi iniziali di questa agro-dolce ballata, con l’incedere gentile del violoncello a contornare parole sincere e appassionate. L’appunto che possiamo fare a una canzone di siffatta bellezza è di rifarsi in maniera palese all’esperienza di gruppi che in apparenza non credevamo poi così affini, come i Fleet Foxes, ma tant’è: un po’ di tradizione a stelle e strisce non poteva mancare dopo aver attinto a livello di background soprattutto da artisti e gruppi d’Oltremanica.
Anche la seconda parte del disco mantiene piuttosto inalterata, quindi elevata, l’asticella della qualità .
Si va così da una “Let It Storm” che fa centro con la sua struttura classica, per poi deflagrare in un finale incandescente (stesso canovaccio della successiva “Dinosaur”, quest’ultima però ancora più dicotomica nell’altenarsi di piano e forte), alla conclusiva “The Internet” che chiude il disco senza far rumore, affidandosi all’espressiva vocalità del leader avvolta in un mood memore della lezione dei Mumford & Sons più ispirati.
I Manchester Orchestra con “The Million Masks of God” confezionano un album certamente affascinante e di solida bellezza, dove ancora una volta sono le atmosfere evocate a darne risalto più che le melodie a prese diretta.
Tuttavia appare chiara allo stesso tempo la volontà da parte di Hull e Robert McDowell (i due autori principali del gruppo) di rendersi più accessibili, con una scrittura che non disdegni di tanto in tanto il ritornello che si possa far ricordare.
Non sarà alla moda e non inseguirà il trend del momento ma dalla sua la band di Atlanta ha le qualità per rimanere nel tempo, svincolata da legami e scene musicali, e questo nuovo lavoro ne è un’ulteriore dimostrazione.
Credit Foto: Shervin Lainez