Spegne oggi quindici candeline “Under the Iron Sea” dei Keane, e anche se allo stato attuale il nome del gruppo appare, se non proprio dimenticato, quanto meno tenuto in naftalina o (a volerne bene) appannaggio soltanto degli ascoltatori più appassionati del british sound, occorre dire che all’epoca della sua pubblicazione erano molti i fari accesi su questo atteso sophomore.
Il perchè è presto detto: il gruppo di Tom Chaplin, Tim Rice-Oxley e Richard Hughes era stato tra le principali sensazioni del nuovo millennio, in grado di rivaleggiare con gli amici Coldplay nel contendersi lo scettro di next big thing del panorama pop rock mondiale.
Se le affinità artistiche e culturali tra le due band erano evidenti, c’è da ricordare che le loro storie si sarebbero anche potuto seriamente mescolare, dal momento che il giovane Tim, talentuoso pianista e compositore, era stato caldamente invitato, sul finire degli anni novanta, dal suo compagno di studi universitari Chris Martin a unirsi al suo gruppo esordiente, dal cui embrione sarebbero nati da lì a breve tempo i Coldplay. All’epoca però il futuro deus ex machine dei Keane declinò gentilmente l’invito.
Poco male, un altro incontro di quelli che cambiano le vite, finendo per indirizzarle, era avvenuto molto tempo prima con il turbolento cantante Tom Chaplin, e qui il racconto assume le sembianze di una fiaba, se è vero che i due si conoscono in realtà dai loro primissimi giorni di vita, visto che nacquero lo stesso giorno e nello stesso ospedale, con le rispettive madri in grado di coltivare una grande amicizia nata proprio tra quei vicini letti di ospedale.
A differenziare i Keane da tutta la nuova ondata di band britanniche degli anni zero, pur partendo come detto da coordinate stilistiche piuttosto similari, era principalmente il fatto che l’allora trio (solo nel 2011 si sarebbe unito in maniera stabile il bassista Jesse Quin) non era munito di chitarre, dal momento che il titolare dello strumento – Dominic Scott – decise di gettare la spugna dopo l’insuccesso del secondo singolo, uscito nel giugno 2001.
Questa carenza di organico si rivelò però a conti fatti il loro punto di forza, poichè i Keane semplicemente si misero a comporre pensando di avere ancora una chitarra, con mirabili arrangiamenti di pianoforte e tastiere che riuscivano magicamente a compensare questo vuoto che, sulla carta, si sarebbe potuto rivelare insanabile.
Dopo il boom dell’esordio, tradotto nei cinque milioni e oltre di copie smerciate da “Hopes and Fears” (una brillante e indimenticabile collezione di singoli e di altre perle disseminate al suo interno), Chaplin e soci si guardarono negli occhi, con la promessa di voler in qualche modo, se non proprio dissociarsi da quello stilema (d’altronde non ce n’era motivo, visti gli ottimi riscontri), quanto meno evolversi, fermo restando alcuni capisaldi.
La melodia in primis, l’alto tasso emozionale poi, gli arrangiamenti eleganti e coinvolgenti su tutto, con l’espediente di poter riprodurre il suono della sei corde alla bisogna, grazie alle preziosi funzioni della tastiera di Rice-Oxley.
Il primo esempio di questa (timida) evoluzione si avvertì sin dalle prime note sparate dal singolo “Is It Any Wonder?”, che seguì di un mese l’uscita del brano anticipatore “Atlantic” (quest’ultimo a dire la verità ebbe una scarsa promozione, affidata solo all’uscita in digitale e su vinile numerato).
Le due canzoni, che si susseguono anche in apertura di scaletta, non potevano però essere più diverse, mostrando due anime ben distinte all’interno del caleidoscopio musicale del gruppo: quanto “Atlantic” è infatti oscura e a tratti epica, tanto “Is It Any Wonder?” è briosa, energica e incalzante.
Lo standard qualitativo di “Under the Iron Sea” si dipana generalmente elevato, tra le malinconie diffuse dalle note di “Nothing in My Way”, il romanticismo beatlesiano di “Hamburg Song”, le sperimentazioni sonore della “quasi” title track “The Iron Sea”, con autentici picchi che si riscontrano nella vorticosa “Broken Toy” e nella inconsapevolmente drammatica “Crystal Ball”, sorretta com’è da un canto appassionato e sincero e da una musica sognante e commovente.
Memorabile anche il relativo video, una sorta di mini film con protagonista un intenso Giovanni Ribisi, attore italo-americano.
Pur mancando della compattezza e dell’integrità del fortunato predecessore, a un album come “Under the Iron Sea” non si può che assegnare un buon voto: il talento compositivo dei tre ragazzi era ancora in là dal divenire scontato clichè, i problemi personali con l’alcool dovevano ancora attanagliare il fragile vocalist e tutto sommato i Nostri con tre milioni di copie vendute nel mondo erano ancora qualcosa di più dei fratellini minori dei Coldplay, anche se non sapranno mai imporsi nell’Olimpo del pop, arrivando a fatica ai giorni nostri, tra turbinii di saliscendi emotivi.
Vien da dire, vista la deriva artistica di Martin e company, che forse in fondo è stato meglio così, e che a rimettere nel lettore dischi come “Hopes and Fears” o lo stesso “Under the Iron Sea”, qui giustamente celebrato, non si fa certo peccato, anzi: quella dei Keane era musica per animi gentili e romantici, ma che sotto una scorza dorata nascondeva crepe e imperfezioni. Ed è proprio questo senso di incompiuto che forse ce li fa amare ancora tanto a distanza di tre lustri.
Data di pubblicazione: 12 giugno 2006
Tracce: 13
Lunghezza: 50:20
Etichetta: Island
Produttore: Andy Green, Keane
Tracklist
1. Atlantic
2. Is It Any Wonder?
3. Nothing in My Way
4. Leaving So Soon?
5. A Bad Dream
6. Hamburg Song
7. Put It Behind You
8. The Iron Sea
9. Crystal Ball
10. Try Again
11. Broken Toy
12. The Frog Prince