Ci sono cantautrici, nel panorama musicale contemporaneo, che hanno saputo segnare un’epoca, pur rimanendo lontane dai riflettori e per questo magari ingiustamente, non dico dimenticate, ma comunque relegate a una nicchia. Nel caso dell’artista in questione, però, non si può certo affermare che non abbia continuato a proporre la sua musica: un percorso coerente il suo, senza tra l’altro incappare in passi falsi.
Reduce dai buoni riscontri del precedente album “Mental Illness”, che si aggiudicò pure un Grammy Award, riportando in auge il suo nome, l’americana Aimee Mann con “Queens of the Summer Hotel”, sembra voler alzare nuovamente l’asticella proponendo un album dal più ampio respiro, sia per il tema che per le musiche, meno ancorate a un folk-pop che era apparsa una formula vincente ma un po’ ripetitiva.
Se i fasti di fine secolo sembrano irripetibili, laddove contribuì enormemente con le sue splendide canzoni a rendere indimenticabile il film “Magnolia” del regista Paul Thomas Anderson, c’è da dire che la Nostra ha sempre mantenuto un legame forte con il cinema o il teatro, e la sua scrittura è quella che si può a ragione definire “per immagini”.
Stavolta il progetto su cui verte l’album è una vicenda già trattata al cinema, quella di Susanna Kaynes e della sua esperienza in un ospedale psichiatrico, che diede l’ispirazione per il celebre film “Ragazze interrotte”.
La Mann realizza così un disco che è la colonna sonora dell’opera teatrale relativa, e pertanto i singoli episodi (ben 15) accompagnano determinati momenti della vicenda citata, assecondandone i toni e gli umori e adagiandone le diverse coordinate musicali.
Il risultato è un album ricco, composito, che alterna pathos, struggimento, dolore e romanticismo in egual misura, affidandosi a un apparato musicale multiforme, che esula talvolta dal contesto intimistico per farsi portavoce, mediante i pensieri della giovane protagonista, di una vasta gamma di emozioni in cui ci si possa riconoscere, facendo così empatizzare lo spettatore (e l’ascoltatore nel nostro caso).
Sono tanti gli interventi orchestrali, a conferire profondità e solennità , ma l’andamento generale è volutamente circoscritto in un ambito pop, evitando austeri classicismi.
Se è vero che il mood rimane al più malinconico, allo stesso tempo l’autrice non sembra voler enfatizzare i momenti drammatici, mantenendo un equilibrio formale tra musica e parole, che a volte rischia però di appiattire una proposta che rimane nelle intenzioni molto valida.
Spiccano quei brani dove la Mann riesce a trasmetterci al meglio il senso di smarrimento e candore, elementi cardini della storia, a partire dalle intense “I Feel You”, che riesce a commuovere con i suoi accorati versi, e “I See You”, che rispettivamente hanno il compito di aprire e chiudere il sipario.
Poggiandosi su dolci note di pianoforte (altro strumento principe, cui più volte si fa ricorso), racchiudono infatti il significato intero dell’opera.
Altri episodi salienti sono “Suicide Is Murder”, dai movimenti vivaci e obliqui, la paradigmatica “You’re Lost”, “At the Frick Museum”, con la sua incalzante e carezzevole melodia, e le divagazioni ritmiche di “Give Me Fifteen”, caratterizzata da ficcanti inserti di violini e violoncelli.
Altrove gli arrangiamenti, curati magistralmente dal produttore Paul Bryan, avvalendosi di nuove soluzioni acuiscono la narrazione, rendendo più incisivi episodi come “You Don’t Have the Room” e “In Mexico”; proprio quest’ultima a mio avviso, toccante e coinvolgente, rappresenta l’apice del disco.
Quella di Aimee Mann assomiglia a una sfida, nel proporre, in un’epoca di passaggi veloci, un disco che abbisogna di essere ascoltato nell’insieme per coglierne i particolari: comporre “Queens of the Summer Hotel” è stata per lei un’opportunità ma anche un’esigenza.
Il fatto che abbia anteposto l’eleganza formale all’urgenza interpretativa non inficia sulla resa finale, è segno anzi di una rinnovata cifra stilistica che giustifica certi accostamenti con le grandi songwriters del passato.