In principio furono i Wolf Parade che, grazie a una manciata di Ep e il debutto “Apologies To Queen Mary” prodotto dal semi-dio Isaac Brock (Modest Mouse), rivelarono al mondo lo straordinario talento pop di Dan Boeckner. Purtroppo la band canadese, portatrice di un sound accattivante che sapeva mescolare ritmo da scuotimento ad atmosfere malinconiche e spesso decadenti, ballò una sola stagione o poco più. Difatti le due prove successive non seppero regalare le stesse soddisfazioni dell’esordio ma il buon Dan non si è dato certo per vinto. Già nel 2007 ha dato vita al progetto parallelo Handsome Furs in coppia con la sua compagna Alexei Perry, che le cronache danno scrittrice di racconti (tanto che il titolo del primo full-lenght del duo “Plague Park” è tratto da uno di questi) ma mai sbarcati in Europa. Proprio il Vecchio Continente, soprattuto il versante nord-orientale, appare come fonte di grande ispirazione per la coppia di artisti di Montreal che vi passa spesso lunghi periodi per assorbire tutte le influenze possibili. Basti come esempio il fatto che Plague Park è pure il nome con il quale è conosciuto il parco Ruttopuisto di Helsinki oppure che il secondo album della band, “Face Control”, è stato scritto durante un viaggio in Russia e ne racconta l’incredibile e ignobile turbo-capitalismo figlio degli anni di depressione comunista. Il “Face Control” del titolo è riferito ad una pratica in voga nei locali notturni di Mosca secondo la quale ad entrare è solo chi si mostra “attraente”.
Ma veniamo ad oggi. Sono passati altri due anni e da qualche giorno è disponibile il terzo lavoro degli Handsome Furs che fin dal titolo dimostra che le fonti di ispirazione politiche e sociali non sono cambiate come non è cambiata la curiosità di Dan e Alexei per i suoni mitteleuropei, stavolta più precisamente quelli industrial ed elettronici degli anni Ottanta tedeschi (il disco è stato mixato a Berlino). Ancora una volta c’è di mezzo un viaggio, in Myanmar stavolta e le liriche risentono profondamente del sentimento di precarietà di un popolo che vive nella costante paura di venire incarcerati anche soltanto per il fatto di fare musica. Così appare programmatico il ritornello dell’iniziale “When I Get Back” in cui Dan canta “when I get back / I won’t be the same no more” e paradigmatico il ritmo ben più incalzante delle composizioni rispetto ai dischi passati. La drum machine che non schioda mai dai 4/4 e i synth e le tastiere che spodestano quasi del tutto le chitarre, la voce che si rifà più che mai alla new wave accostandosi pericolosamente ad un Dave Gahan da dance floor (di qualche ottava più acuto e maggiormente stentoreo) e pure ad un Bono Vox periodo “Achtung Baby” in “Repatriated”, uno dei pochi pezzi peraltro in cui si distingue l’elettrica.
Sound Kapital è un disco coraggioso, che non ha paura di suonare fuori dalla tendenza odierna di levigare tutto, dalla musica ai contenuti, che non ottempera alla tendenza di chiudersi in un intimismo dei sentimenti che nella maggioranza dei casi appare stucchevole e noioso. Un disco che non teme di essere politico con brani come “Serve The People”, “Memories Of The Future” e “What About Us”, che ci mostra come i cuori si possano spezza anche di fronte alle prevaricazioni e alle violenze e non solo per gli amori perduti e lo fa senza annoiare con “pipponi” strangolatori e la chiusura con una ironica eppure densa “No Feelings” aiuta a capire bene qual è il mood del duo. Un disco, infine, da fare invidia ad Alec Empire e ai suoi scalcagnati Atari Teenage Riot odierni. Ma questa è un’altra storia.
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2. Damage
3. Bury Me Standing
4. Memories Of The Future
5. Serve The People
6. What About Us
7. Repatriated
8. Cheap Music
9. No Feelings
Ascolta “Repatriated”