Un gradito ritorno che sa di vecchi tempi.

Un album che non tradisce le origini e il percorso fino ad ora fatto, facendo piombare di nuovo tutti i fan   in un vortice nostalgico che sa di misticismo, ricerca strumentale, India, Bob Dylan e i Beatles.

I  Kula Shaker sono una delle band più sottovalutate della storia inglese. Famosi solo per aver prodotto e dato al mondo “Govinda”, il gruppo d’oltremanica ha sfornato pezzi che difficilmente mi scorderò. Non solo, all’attivo hanno ancora cover rivisitate sradicando quelli che erano i canoni prestabiliti all’atto del concepimento stesso,   come “Ballad Of A Thin Man” dell’americano Dylan.

“1st Congregational Church Of Eternal Love and Free Hugs” è forse il grande contenitore, il grande progetto alla “Sgt. Pepper’s” del complesso capitanato da Crispian Mills. Non solo è alto il livello artistico e di produzione, ma anche il concept che si cela dietro a questo nuovo e sesto lavoro.

Le 20 canzoni, da quasi un’ora di durata, sono la grande colonna sonora di una semplice messa che si svolge (questo immaginiamocelo) in un piccolo paesino sperduto della campagna inglese, ancora ancorato alla religione ma desiderosa di un cambiamento forte ed immediato. Per questo la nascita di una nuova chiesa, di una nuova fede, che si rifà  non all’amore verso un Dio sconosciuto ma verso semplicemente l’amore e la condivisione con gli altri. Una filosofia che ci riconduce banalmente agli anni Sessanta del XX secolo e che si immette preponderante in ogni singolo brano, dalle ballad più semplici alle canzoni più rock.

A darci questa impressione sono gli intermezzi parlati all’interno del brano, nei quali un prete (o un pastore, un predicatore o semplicemente un Manson della situazione) si rifà  alla congregazione con una predica sociale, filosofica ed umana. Non mancano i siparietti: in “Let Us Pray” suona un cellulare, nel silenzio della scena tra qualche colpo di tosse e pianto di bambino; in “Raining Buckets”, una voce che potrebbe essere Olivia Colman va contro il predicatore accusato da quest’ultima di non aver abbastanza protetto alcuni bambini indottrinati da un’altra società  religiosa.

Musicalmente il progetto è magistrale e meno lungo di quanto uno possa aspettarsi guardando la tracklist, a dimostrazione che la band vuole prendersi il suo tempo fisico e metafisico per produrre qualcosa che possa avere un senso ed un valore anche per i posteri. Seppur non ci siano grandi sconvolgimenti strumentali, lo stile è sempre quello diciamocelo, il prodotto finale è di grande apprezzamento e amore.

La voce di Mills, dai tratti Dylaneschi, è di un effetto e piacere unico poichè si mischia facilmente con le atmosfere e le influenze che da anni sono tratti caratteristici del gruppo: il rock psichedelico di inizio anni Sessanta e successivamente Settanta, le influenze mistiche e religiose di un’India non del tutto occidentalizzata.

Non mi stancherò mai di amarli e di apprezzarli fino in fondo, perchè una band come i Kula Shaker andrebbe tenuta stretta a sè e non dovrebbe essere abbandonata mai!