Eccoci arrivati alla terza giornata del Mad Cool Festival ““ sei curioso di com’è andata la seconda? C’erano i Killers, St Vincent, La Femme“… Trovi tutto qui!
Siamo partiti a bomba con CL, artista coreana divenuta famosa come leader delle 2NE1, gruppo K-pop particolarmente popolare nello scorso decennio. All’anagrafe Lee Chaelin, la rapper ha saputo presto costruire una carriera solista ben solida, che vanta ormai da tempo ascolti e concerti da ogni parte del mondo. Presenza scenica pazzesca, con un pubblico in adorazione che urla e balla nonostante non sappia mezza parola in coreano. Unica pecca è l’inizio dello spettacolo in ritardo ““ e di conseguenza una durata più breve del concerto, ma avremo sicuramente modo di rifarci.
“Puta madre!” Così esordisce con entusiasmo il cantante degli Spielbergs, dopo una breve sosta dagli Only The Poets ““ band inglese che ci ha lasciato nel cuore un live di tutto rispetto, e sicuramente di curiosità per ciò che ci riserveranno in futuro.
Esclamazioni alquanto peculiari a parte, anche gli Spielbergs ci hanno lasciato un’ottima impressione grazie all’energia che il loro alt rock ci ha donato. Da rivedere, sia loro sia gli Only The Poets.
La meraviglia di questa giornata continua con delle salsicce enormi (avete letto benissimo) sul palco delle HAIM, che hanno portato avanti uno show di grande qualità , sia dal punto di vista artistico che del puro intrattenimento. Basti pensare che alla fine hanno brillato così tanto persino da oscurare quelle enormi salsicce. Tra pseudo contest su chi sia la sorella Haim più amata e skit su avventure con un fantomatico Federico (come premessa a “3AM”), la band si è confermata ancora una volta come uno dei punti cardine del panorama rock attuale. Da sottolineare poi la più che attesa collaborazione con il giovanissimo sassofonista Henry Solomon, che oltre al tour con la band e una carriera solista porta avanti anche un progetto con altri giovanissimi studenti chiamato Thumpasuarus.
Un’altra donna che ci ha fatto subito cadere ai suoi piedi è stata indubbiamente Phoebe Bridgers. Si presenta da subito come un’umile cantastorie, invita amorevolmente i presenti a entrare nel suo mondo fatto di tutine da scheletro, fantasmi e flussi di coscienza. Immancabili i cori su “Kyoto” (dedicata ai padri presenti, tra l’altro), “Motion Sickness”, “ICU” e “Punisher”, mentre Bridgers li dirige come la migliore dei direttori d’orchestra. L’amore che circonda questa donna è davvero immenso, e dopo averla vista possiamo dire che non è difficile capirne il perchè.
Terzo tramonto di questo festival, terza band iconica a esibirsi nel mentre: stavolta parliamo dei The War on Drugs, che ha presentato a una folla entusiasta “I Don’t Live Here Anymore”, loro ultimo disco. Una performance memorabile, che ha lasciato in noi la voglia di rivederli il prima possibile ““ cosa per cui dovremo purtroppo aspettare diverso tempo, dato che questo concerto segna la fine del loro tour europeo. Noi, nel nostro piccolo, non potremmo essere più onorati di aver fatto parte della fine di questo capitolo.
Un nuovo inizio (e vecchio in contemporanea, in un certo senso) totalmente diverso è dato invece dagli Incubus. Un boato li accoglie non appena salgono sul palco, mentre metà degli spettatori si prepara a devastare l’area a suon di poghi. E pensare che neanche dovevano esserci, ma sono arrivati per sostituire i Queens of The Stone Age. Pezzo dopo pezzo, l’entusiasmo del pubblico non ha fatto che crescere, in un delirio collettivo esploso definitivamente durante “I Wish You Were Here” e “Drive”. Come dicono, a volte le situazioni migliori nascono proprio dagli imprevisti ““ e questa esibizione ne è la prova più lampante.
I Muse ce li siamo goduti da lontano, nel tentativo (riuscito) di vederci gli Alt-J comodamente dalla prima fila. Eppure, lasciatecelo dire: nonostante la distanza, abbiamo percepito benissimo dal primo all’ultimo secondo quanto il trio britannico abbia dominato l’intero palcoscenico. Nonostante vantino ben otto album lungo la propria carriera, i fan urlano estasiati le parole di ogni singola canzone, dalle più inflazionate come “Supermassive Black Hole” a “Will of The People”, teaser del nuovo album. E proprio come il nome anticipa, al popolo è stato dato esattamente ciò che voleva, senza però cadere nel mero compiacimento. Bellamy, siamo tutti tuoi.
Ed eccoci con gli Alt-J letteralmente davanti. Una candela appena accesa si erge sul fondale del palco, il pubblico quasi trema mentre partono le note di “Bane” ““ canzone che sì, parla di amore infinito per la Coca Cola, ma dal vivo risulta così piacevole e intensa che alle parole non ci si fa neanche più caso. Ogni canzone tocca il cuore fino in fondo, specie “Taro” e “The Gospel of John Hurt”. Anche “Hard Drive Gold” e “California” fanno la loro magnifica figura accanto alle hit più storiche, dimostrando quanto “The Dream” sia un album che vale molto più di quanto appaia dal primo ascolto. Tantissime emozioni tutte in una volta, occhi lucidi e farfalle nello stomaco: la perfetta dimostrazione di ciò che può causare la musica dal vivo.