Rimangono   pochissime speranze per chi ancora nutre dubbi sul progetto di Syd Minsky-Sargeant alla luce e all’ascolto di questo “Fear Fear”, seconda imprescindibile prova , in questo 2022 almeno, del combo inglese; dubbi che l’esuberante primo album omonimo di due anni fa in effetti poteva anche ai meno attenti far sorgere, vista la quantità  enorme dei riferimenti musicali contenuti nell’esordio, che al d là  di tutto, l’età , il plagio, la reverenza marcata, sprizzava un’energetica sensazione di riproduzione onesta e sincera di qualcosa di pulsante originalità .

In virtù di questo “Fear Fear”, è come se ai 20 anni del leader fosse cresciuta in sintesi la corazza della maturazione, che gioco forza il periodo di isolamento covidiano ha decisamente contribuito a rafforzare, virando il contesto riflessivo dell’opera, come da titolo ripetuto, sul dolore della fragilità  di questi anni sbagliati, sulla dimensione di attacco e difesa a cui siamo costretti a convivere da 3 anni a sta parte.

Ma alla stregua della sensazioni di due anni fa e ancora più caparbiamente dopo gli innumerevoli ascolti di “Fear Fear”, oggi come allora è lo stesso senso di stupore che suscitano questi brani, stupore ancora estatico e con ridottissimi elementi di scetticismo nel vedere così tanta capacità  in un ventenne di adesso, nell’inanellare brani che prendono a piene mani da un background sterminato della migliore elettro di 30, 35 anni fa, in un contesto musicale dove questi suoni, sì certo, sono ancora pulsanti e iconici, ma tranne qualche raro caso di buon livello (A Nation of Language) insomma sono a carico di cariatidi o oggetto di puro revival.

Qui Sargeant assottiglia il vasto assortimento delle sue influenze, concentrandosi in un periodo a dire il vero molto stretto che va dalla fine dei 70 alla prima età  degli anni 80, innestandosi nella migliore transizione del primo synth pop, elettro pop, di quel meraviglioso periodo dove il rock che si trasformava in post punk faceva il suo primo approccio con la dance, creando ibridi all’epoca irraggiungibili, a insaputa degli stessi autori.

Questa forma di perimetro dentro il quale si muovono le canzoni di “Fear Fear” non subisce mail l’accusa di stantio o di come dire forzatamente copiato, gli innumerevoli riferimenti alle band che hanno segnato questi suoni (fra tutte, New Order, Depeche, PIL, The Fall, Gary Numan etc etc) non hanno nessun timore di essere menzionate, perchè sono lo strumento attraverso il quale esce questo magma nuovo ed originale, con innesti tra l’altro più aggiornati, vedasi il synth frenetico di “Money is mine” che ha qualcosa del tardi Aphex Twin  e i rimandi al big beats dei sempre amati Chemicals qua e la presenti.

Insomma, “Fear Fear” riesce a tradurre un’esigenza emotiva giovane ed intransigente che fa appello alla migliore tradizione del suono di una delle migliori scene della storia del rock, quella cosa pruriginosa e così attrattiva da cui non ci si può sottrarre, attirati come un magnete dai potentissimi synth (“Widow”, “Circumference”, ad esempio), con quella voce alla Mark E. Smith declamante, sporca ma allo stesso tempo perfettamente polarizzata rispetto a un sound mai immobile anzi ritmato eccome; l’appeal dei Working men’s club è proprio questo, fare anche ballare (“Heart Attack”, l’iniziale “19”), quasi sviando l’ascoltatore meno attento, ma riuscendo allo stesso tempo a intrigare anche chi di tutta questa new wave della new wave non avrebbe da tempo più voglia di farsi coinvolgere.

Quindi, per tornare al vecchio dilemma del rock’n roll swindle, mettiamola così , aspettiamo il famoso e difficile terzo album, magari nel prossimo ci sarà  un ulteriore cambio di registro ma per il momento godiamoci questo “Fear Fear” come un unicum, un album coraggioso e sfrontato, vorticoso e dinamico, già  perfettamente in linea con il suo creatore e coerente con la musica che propone, da custodire e tenere stretto come fosse veramente una creatura a cui affezionarsi vista la recente genesi e monitorare nel tempo come fenomeno prezioso; una musica che fa ballare e sognare e anche essere solenne e romantica, come nella cinematica finale “The last one”, che si concede il lusso di una partitura d’archi, che segna forse la strada futura per la band, che ci dice ancora una volta, che non è tutto uno scherzo, che questa esperienza è un’esigenza, un sentimento che sgorga, che coltiva cardinali punti con una discreta moltitudine di seguaci a cui questa cosa da 40 anni scorre nelle vene.