Se c’è un’artista per la quale non mi creo grandi aspettative, quella è l’islandese Bjork, e non perchè non sia presente in me quel senso di trepidante attesa – anzi, la considero senza alcuna remora la migliore interprete femminile, assieme a PJ Harvey, emersa dagli anni 90 ad oggi – ma proprio perchè sai già che qualunque cosa tu ti sia immaginato riguardo un nuovo disco, lei sarà in grado di capovolgerti la prospettiva e di sparigliare le carte in tavola.
Ogni suo lavoro infatti è multiforme, sfuggente, gioca su differenti piani, ed è spesso e volentieri fortemente condizionato dai suoi risvolti personali, positivi o negativi che siano. Momenti di vita vissuti di quelli che inesorabilmente ti segnano, e che lei riesce a veicolare poi con la sua arte, plasmando dal dolore o dalla ritrovata gioia nuovi emozionanti e vibranti capitoli della sua ormai lunga esperienza discografica.
Così se in “Vespertine” ““ del 2001 ““ l’alone positivo che lo permeava era frutto dell’inizio della relazione con Matthew Barney, “Vulnicura” – del 2015 -, che segnava invece la fine del suo matrimonio ultra decennale ne sublimava tutto il dolore in modo complesso, disturbante, finanche tragico (indimenticabile a tal proposito la copertina che ritraeva l’artista col petto squarciato). Fino ad arrivare al più recente “Utopia”, l’ultimo album di inediti pubblicato un lustro fa in cui la Nostra mostrava meno asperità in un apparato folktronico tempestato da bagliori d’avanguardia, dove il binomio con Arca (per una collaborazione nata all’altezza del disco precedente) sembrava perfetto.
Ma ora, trascorsi questi cinque anni nei quali a livello globale è successo di tutto, tra pandemia e timori giustificati di una nuova guerra mondiale, come poteva rispondere un’artista a tutto tondo come lei? Quale sarebbe stata la sua reazione? Avrebbe cercato forse di esorcizzare ansie e preoccupazioni con un disco festoso, dai buoni auspici o avrebbe continuato lungo una strada tutta sua, spingendosi sempre più in là nella sperimentazione?
Qualche indizio ci aveva un po’ portato fuori rotta, visto che la stessa Bjork ha raccontato di essersi divertita in djing sfrenati presso la sua dimora in Islanda, dove poter ballare suoni techno e gabber; e allora qualcuno ipotizzava che quella sua valvola di sfogo avrebbe trovato nuova linfa in un ulteriore prodotto composito adatto al mercato.
Sarebbe stato in fondo prevedibile ma, come sappiamo, lei non è quel tipo di artista, ed è bastato mettersi all’ascolto del primo estratto, “Atopos”, per comprendere che ancora una volta si sarebbe trattato di un album diverso da tutti gli altri.
Per quanto in questo primo singolo, che campeggia pure all’inizio della tracklist di “Fossora” (titolo che, vedremo, contiene un messaggio metaforico) siano in qualche modo riconoscibili alcuni elementi trip-hop e un cantato più o meno lineare, in realtà si viene subito disorientati dall’ingresso dei clarinetti che formano un asse musicale dissonante, dai toni sinistri, mentre la presenza dell’ indonesiano Kasimyn del duo Gabber Modus Operandi fa deragliare la canzone in pesanti contesti elettronici, conferendo una dualità intrinseca parecchio affascinante al brano in questione.
Anche in “Ovule”, seconda traccia in ordine di apparizione, permane quel senso di minacciosa solennità , dettata dal suono del trombone e da liriche intrise di una cruda consapevolezza sulla vacuità di certi rapporti sentimentali che si credevano al contrario eterni: Bjork si riferisce in particolare a quell’ideale dell’amore disintegrato dalla fine del suo matrimonio con Barney.
Se già questi primi due episodi hanno lasciato spiazzati, che dire di “Mycella”, che suona come un intermezzo spettrale (o uno sterile esercizio di stile, ad esser severi)?
Invece uno squarcio di luce ci giunge finalmente con la riflessiva “Sorrowful Soil”, accorato omaggio alla madre Hildur Runa, nota attivista morta nel 2018. E’ una vera elegia quella messa in scena per ricordare l’amata figura materna, simbolo di donna che l’ha cresciuta ed emancipata, alla cui resa concorre il coro islandese Hamrahlid e, nel brano seguente, suo figlio Sindri.
“Ancestress” colpisce ancora di più a livello emotivo, sia per una struttura musicale raffinata dall’epico respiro, sia per il valore simbolico che le si può attribuire, in quanto con a fianco Sindri, che l’ha resa nonna nel 2019, Bjork si sente ancora più vicina all’essenza di sua madre; si va così a delineare il cerchio della vita, che in questo album viene completato con la partecipazione anche dell’altra figlia, Isadora, che dona la sua dolcissima voce in un altro episodio caratteristico: “Her Mother’s House”, in cui si assiste a un significativo e commovente passaggio di consegne in versi autentici e disarmanti come “Più ti amo, più diventi forte e meno hai bisogno di me”.
Non sono in grado personalmente di riconoscere un concept specifico in “Fossora”, o meglio, non solo uno, in quanto il tema dei sentimenti, considerato a partire dalle solidi radici familiari, è come visto ben sviscerato e rivela la parte più sensibile di un’artista che non si è mai risparmiata in quanto a vivere le relazioni con tutte le sue implicazioni. Qui Bjork credo non intenda fare bilanci definitivi, ma è chiaro che a quasi 57 anni possa avere la lucidità necessaria per assecondare al meglio i flussi emotivi per poter vivere l’amore, in ogni sua declinazione, e trarne nuova ispirazione.
L’altro tema portante è quello di un ritorno più o meno esplicito alla Terra Madre, in senso figurato ““ sin dal titolo “Fossora” che rimanda al latino “colei che scava” ““ ma non solo, visto che sono disseminati nel disco tanti riferimenti specialmente al mondo dei funghi: valga come esempio lampante la canzone “Fungal City”, dove interviene per uno dei feat più efficaci e interessanti il cantante statunitense Serpentwithfeet.
Ma l’appartenenza a un mondo terreno viene tradotto anche in un impeto di ritmi tambureggianti e beat techno, gli stessi che contornano una title track ondivaga (con il sestetto di clarinetti e un oboe sincopato a dettare il mood iniziale) e perentoria con l’ingresso della strumentazione del già citato deejay Kasimyn, protagonista pure della programmatica “Trölla-Gabba”, che funge però da indesiderato punto di rottura.
Nel quadro di un lavoro assai ostico, in cui non appena ti pare di esservi entrato in sintonia, ti ritrovi nuovamente inerme e impegnato in un nuovo cambio di direzione, quasi fossimo proiettati in un rollecoaster di suggestioni, Bjork riesce a inanellare altre due prestazione dove i toni si smorzano per lasciare spazio ancora a una pausa contemplativa: accade nella placida “Allow”, caratterizzata da un morbido e aggraziato suono del flauto e in una “Freefall” che lascia trapelare una parvenza melodica e libera finalmente in volo la sua voce così unica nel panorama musicale mondiale, consegnandoci l’immagine di una artista finalmente in pace con se stessa.
Ora, secondo il format del nostro sito, dovrei in conclusione sintetizzare con un voto il valore da attribuire a quest’opera, l’ennesima di Bjork di un certo spessore.
Devo ammettere, e lo dico da fan della prim’ora, che non è stato facile approcciarsi a “Fossora”; per quanto ogni titolo in catalogo comporti una piena immersione nell’arte e nella poetica di questa straordinaria cantante, ci ho sempre trovato una specie di linea guida, un senso di omogeneità e compattezza (anche nell’immaterialismo di certi dischi, mi viene in mente “Medulla”, o in “Biophilia”, dove la tecnologia l’aveva spinta all’estremo), che invece in questo disco fatico a riscontrare.
Dopo svariati ascolti sono ancora qui ad affrontare un album che da una parte mi attrae e mi intriga, ma dall’altra mi viene da respingere, e se la mia intenzione nel giudicarlo è quello di contestualizzarlo nell’ambito di una carriera che l’ha vista realizzare autentici capolavori come “Post” e “Homogenic”, e che ha preso il volo con lo splendido “Debut”, allora mi sento in dovere di rimanere a metà del guado, non arrivando cioè all’8 pieno.
Poi, se artisti alle prime armi avessero creato un disco così sarebbe stato certamente un ottimo biglietto da visita, su questo non ci piove, ma lei si chiama Bjork ed è lecito considerare “Fossora” come un lavoro di transizione verso qualcosa che sarà inevitabilmente ancora diverso da tutto il resto e perciò impossibile da prevedere.