10. ANDREW BIRD
Inside Problems
[Loma Toma]
La nostra recensione
Andrew Bird centra l’album più semplice e coinvolgente della sua carriera, adattando il suo noto eclettismo al servizio di una verve creativa finalmente efficace, dentro un universo di minimalismo pop del miglior David Byrne, con il risultato di canzoni dagli innumerevoli punti di vista, generose di melodie da fischiettare, leggiadre ed imprevedibili, come dovrebbero essere tutti i momenti in cui si ascoltano.
9. PINEGROVE
11:11
[Rough Trade]
La nostra recensione
Il miglior disco indie dell’anno, vestito a nudo di melodie cristalline che condensano sincerità adolescenziale con la rumorosità post grunge, dove la ripetizione dello schema compositivo non è un limite, ma il territorio di conforto dove le qualità di questi 4 ragazzotti della provincia americana riescono a tracciare qualcosa di universalmente riconoscibile.
8. SPIRITUALIZED
Everything was beautiful
[Bella Union]
La nostra recensione
Un ulteriore viaggio orchestrale dentro il vellutato romanticismo di Mr. Jason Pierce, ancora una volta alla prova dei fatti con i propri idoli mai nascosti (Stones, Iggy), in 7 brani che distillano dal travolgente inizio fino all’ultima nota di un soul intriso di gospel, pasticche senza scadenza di feeling inevitabile, un amore incondizionato e a prima vista verso la migliore musica, per palati che non ne hanno mai avuto abbastanza. Long life Spiritualized.
7. MITSKI
Lauren Hell
[Dead Oceans]
La nostra recensione
La prova matura di una tra le voci più espressive del panorama femminile, che taglia e cuce riflessioni sulla propria dimensione temporale, tra mai nascoste fragilità e riflessioni amare che innescano energia vitale, tra malinconie post new wave e liberazioni easy listening di derivazione eighties, che colpiscono e lasciano il segno là dove esiste un comune sentire. Nel frattempo “The only heartbraker” è da mesi in heavy rotation.
6. MOIN
Paste
[AD93]
I Moin raddoppiano in un paio di anni come una forgiatura da continuare a stretto giro per una superiore rappresentazione per niente statica del background musicale del trio, forse con una maggiore sensibilità dub della nostra Magaletti; un album se possibile ancora più conciso del precedente, che non dà solo la perfetta ambientazione ad un post punk moderno, ma che sfida ulteriormente il classicismo della costruzione a traino chitarristico con un persistente uso del campionamento vocale, nel tentativo di nuovo riuscito di plasmare un corpus sonoro del tutto originale.
5. KING HANNAH
I’m Not Sorry, I Was Just Being Me
[City Slang]
La nostra recensione
L’esordio più convincente e allo stesso tempo forse l’album fra i più ispirati in circolazione, mischia in modo sorprendentemente vivo atmosfere intoccabili finora dei tardi Portishead con un blues caldo e lento, dove l’intrigante voce di Hannah Merrick, il ritmo lento e le languide code di queste canzoni concorrono a condurci dentro il miglior rock americano degli anni 90, intriso di cupezza e l’espiazione della ricerca del mistero.
4. FONTAINES D.C.
Skinty Fia
[Partisan]
La nostra recensione
I Fontaines D.C. superano brillantemente la prova del terzo difficile album, svoltando pare definitivamente verso una costruzione più autoriale delle canzoni, lasciando le asprezze e i ritmi serrati dei precedenti ottimi lavori verso una definizione di un sound personale che pesca a mani aperte dalla new wave inglese, ribattezzandola con uno stile melodico proprio, dove il contributo di una maturità inaspettatamente così giovane permette di apprezzare più a vivo i passaggi emotivi, in brani tutto sommato di struttura semplice dove insiste una compressione mirabile della tensione degli ultimi 30 anni di rock d’Albione.
3. WORKING’S MEN CLUB
Fear Fear
[Heavinly Recordings]
La nostra recensione
Working’s men club continuano positivamente a provocare e stimolare, serrando le linee con meno dispersione di stile, riuscendo a contenere l’esuberanza dell’esordio verso qualcosa di più perimetrale seppur magmatico e groovy, un disco che riassume anni di verbalità dei Fall dentro una pulsante sessione di synth pop moderno con tanta tanta voglia di anni 80, che inganna, stupisce e fa sempre voglia di riascoltare, col dubbio di aver perso qualcosa o l’eccitante timore di non avere capito nulla. A solo 20 anni o giù di li.
2. DRY CLEANING
Stumpwork
[4AD]
La nostra recensione
La meteora Dry Cleaning non si ferma, anzi raddoppia e se ne esce con un secondo album ancora più conturbante del primo e fortunato “New Long Leg” di solo un anno fa, partendo sempre dalla base di una rivisitazione post punk, provando ad osare (non solo nella controversa copertina) in “Stumpwork” a sconfinare nei brani più lunghi in territori di alt noise, con ritmi lenti e onirici, in un intreccio formidabile tra il conturbante spoken di Florence Shaw e la splendida chitarra di Tom Dowse che raggiunge un lirismo intenso degno dei migliori Sonic Youth “quieti” a trazione Kim Gordon.
1. THE SMILE
A Light For Attracting Attention
[XL Recordings]
La nostra recensione
A ben vedere, un clamoroso esempio di aspettative che coincidono con l’esito dell’ascolto, ma ,come dire, quando i due più talentuosi membri della più significativa band degli ultimi 30 anni provano a inseguire la loro vena di ricerca solo con l’ausilio della loro complementarietà (York melodia e lirycs, Greenwood partiture e sound in generale) affiancandosi ad uno dei migliori batteristi della nuova generazione jazz, niente è vietato. Un album ricco, completo, del tutto appagante, che mira alto accontentando i palati più esigenti ma anche i fan della prima ora, che ispira e conforta, che segna a fondo una traccia di compenetrazione artistica notevole in un ambito che ha bisogno a palate di qualità come questa, e che nel corso dell’anno è stato riversato con un effetto ancora più emozionante in splendide performance live, per chi ha avuto la fortuna di vederli. Sorridiamo.