Potrebbe sembrare che ad ottantadue anni Alain Resnais abbia finalmente deciso di realizzare una storia lineare. Un forte copione teatrale è infatti il soggetto del suo nuovo film, premiato per la regia al Festival di Venezia. In realtà , la sua ultima opera gira in circolo come il bancone del bar di Lionel: un circolo in cui tutto alla fine, non torna.


L’impressione più evidente che si ha, guardando questo meraviglioso film, è quella di una presa di coscienza ineluttabile: la solitudine come situazione necessaria. Il gesto finale, l’abbraccio consolatorio tra Gaelle e l’attempato fratello Thierry, sembra l’unico tipo di conforto, non catartico, meno che mai risolutivo, che la vita può riservare.


Cuori è un film straordinario, tutto girato in interni, che rifiuta qualsiasi tipo di crescendo drammatico e fa trasparire la verità  proprio nel momento in cui, come ogni film d’autore, manifesta in modo più o meno velato il suo status di opera, di costruzione semantica, di lavoro sulla messa in scena. Solo in questo modo possono essere lette le riprese dall’alto (un alto senza soffitto) dell’appartamento in cui si aggirano Thierry e Nicole, o la neve che improvvisamente scende nell’appartamento di Lionel, mentre egli dialoga con Charlotte: licenze poetiche, virtuosismi, dichiarazioni di poetica e di presenza che non indeboliscono, ma anzi rafforzano, il rapporto tra lo spettatore e il film. E’ da sempre il paradosso del cinema europeo: capace di penetrare più a fondo proprio nel momento in cui si rivela come prodotto autoriale.


Ma non è tutto: Alain Resnais, il regista dei continui ritorni, dei relais temporali, del passato che incombe sul presente, ad una prima visione potrebbe dare l’idea di essere retrocesso ad un cinema più semplice, più diretto, meno innovativo. Sarebbe una percezione sbagliata, perchè se da una parte è vero che mancano i vorticosi salti temporali di Hiroshima mon amour o de L’anno scorso a Marienbad, da un’altra è vero che l’operazione è ancora più difficile, e la sfida più ambiziosa. Il passato pesa sui protagonisti in modo più sottile, parte forse dai dettagli e dagli oggetti, come il quadro in casa di Thierry o la foto in quella di Lionel, o ancora le videocassette di Charlotte. Incombe eppure non si svela, come non si svela la città : Parigi non si vede che all’inizio, sepolta nella nebbia e nella neve, e poi si dilegua restando sempre fuori campo. Un’assenza che è comunque una presenza, una sensazione che getta una patina opaca sul viso dei protagonisti, intenti a cercare un rimedio alla constatazione che dopo aver vissuto, come spiega Nicole, gli si è rimpicciolito il cuore.


Sarà  forse proprio per la neve, motivo ricorrente del film: forse un espediente un po’ didascalico (l’inverno dei cuori?) eppure anche un elemento che fa da referente costante allo spazio urbano. Si può sorvolare su certe soluzioni troppo facili, come il ricorso agli spazi costantemente separati che accentuano la divisione di personaggi che fanno addirittura fatica a toccarsi, presi come sono a identificare le loro ferite. Si potrebbe notare anche un debito eccessivo verso l’origine teatrale del soggetto.
La macchina da presa è però tanto elegante, sinuosa nel seguire i personaggi rifiutando l’eccessività  del gesto, della recitazione, delle situazioni: nel finale, a Resnais basta allontanarla un po’ dai personaggi, isolarli nei loro ambienti quotidiani, silenziosi e deserti, per rendere l’idea del suo film molto meglio che inutili dialoghi.