Viviamo in tempi grami. Lo so è un refrain che si sente troppo spesso ma qui non mi riferisco a crisi economiche o a riflessioni politiche, molto peggio: la situazione è grave perchè a spadroneggiare è la stupidità . La società umana ha da un pezzo imboccato il tornante rivolto al regresso e, ormai, abbiamo concluso la nostra inversione ad U verso un grigiore che sarà difficile mandare via. D’altronde ciò che altri ben più importanti di me hanno definito “retromania” non è altro che incapacità di pensare un futuro, in fondo di pensare e quindi ci si adagia sempre più su stilemi già assodati, masticati e digeriti, ci si accontenta di ingurgitare bolo convinti che sia squisito. Non mi stupirei se tra una quindicina d’anni, per la reunion dei Coldplay, da tenersi in grande stile a Stonehenge, si vendessero un milione di biglietti in un minuto. In questo scenario scoraggiante il fatto che il primo grande disco uscito nel 2011 sia stato “Let England Shake” di PJ Harvey e, verosimilmente, l’ultimo questo “Bad As Me” di Tom Waits, mi sembra l’evento meno grave seppure paradigmatico della latitanza di nuove proposte e di voglia di rischiare.
Sia chiaro, Tom Waits ha tirato fuori un disco molto bello, intenso, viscerale, splendidamente suonato e che dimostra come l’uomo, alle soglie dei quarant’anni di carriera e dopo 20 album in studio, abbia ancora molto da dire e da dare, e che tutti i suoi infiniti emuli ne debbano fare di strada per non arrivare, comunque, al cospetto del maestro. Capossela sei avvisato.
“Bad As Me” esce a sette anni di distanza dal suo predecessore, il borbottante e involuto “Real Gone” che non convinse e che rischiava di suonare come una sentenza definitiva sull’ispirazione e la tenuta di Waits, invece i due tour mondiali che sono seguiti e l’interpretazione mefistofelica nel “Parnassus” di Terry Gilliam hanno dimostrato come e quanto questo californiano anomalo sia ancora in splendida forma e oggi, col nuovo disco nelle orecchie, sappiamo che pure l’ispirazione è salva. Niente di nuovo sotto al sole fin dal brano che dà nome all’album e che fa saltare sulla sedia al primo ascolto, bordate di blues e psichedelia (Beefheart ne sarebbe orgoglioso), le solite trame di chitarra di Marc Ribot e quella voce straordinaria capace di spaziare tra Screaming Jay Hawkins e lo stesso Captain. Ed è proprio la voce a segnare la differenza col recente passato, infatti Tom abbandona l’automatico ricorso all’abbaio e decide di svariare, giungendo a confezionare una “Talking at The Same Time” da fare invidia a molte voce femminili della storia della musica e ai jazz club Cinquanta e Sessanta, oppure lo straziante giro di danze “Pay Me” che sembra giungere direttamente dagli anni giovanili del Nostro, pieni di bar e vuoti di soldi. Non mancano momenti più rudi come la tabula rasa desertificata di “Face To the Highway” dove il nostro rantola appoggiandosi alle note di un sax che riporta alla mente il mai troppo compianto Mark Sandman, oppure il funk d’oltretomba di “Hell Broke Luce”, dove Waits torna cane mannaro e si avvale di Flea al basso, finalmente impegnato su spartiti degni, e fiati esplosivi. Perchè non va dimenticato che quando diciamo Tom Waits diciamo anche di una band stratosferica, con il già citato Marc Ribot, l’altro eterno sodale Augie Meyers, l’ottimo batterista nonchè erede Casey e un manipolo di musicisti di talento oltre a ospiti di lusso, del calibro di Les Claypool e Keith Richards. Ed è così che dall’orchestrina confidenziale di “Last Leaf” si può passare alla bras band, al jazz di “Kiss Me Like a Stranger” o al gospel ruggente di “Satisfied” (filiazione diretta e dedica agli Stones).
Musica reazionaria al cento per cento dunque, ma che eleganza, che spirito. Il nostro Titanic è già salpato e noi ci siamo sopra, per cui tanto vale che l’orchestra che suona sia quella di Tom Waits e “New Year’s Eve” da mandare a memoria per il prossimo ultimo Capodanno.