Blackeberg, periferia di Stoccolma, primi anni Ottanta.
Vessato dal sadismo dei bulli di scuola, il dodicenne Oskar passa pomeriggi solitari sognando una vendetta di cui è incapace.
Un giorno, anzi, una notte, nel suo quartiere arriva Eli.
Tanto angelico lui tanto tenebrosa è lei. Unghie sporche, odore strano, vestiti fuori moda ed enormi occhi verdi. Lui le da il cubo di Rubik, lei gli risolve la vita.
Tratto dall’omonimo romanzo di John Ajvide Lindqvist, lo Stephen King scandinavo che ha curato anche la sceneggiatura del film, “Lasciami Entrare” è un horror davvero peculiare.
Negli ultimi tempi abbiamo assistito a rimescolamenti di carte per quanto riguarda i generi da attribuire alle uscite cinematografiche. Ultimo è il caso di “Twilight”, tanto simile nel soggetto quanto lontano nel risultato e nello spessore da questo gioiello che viene dal Nord.
Lasciami entrare è certo storia di vampiri, omicidi e sangue ma non solo, non principalmente. E’ in primo piano è una delicata favola nera, vicenda di formazione e d’amore tra outsider, diversi per destino e costituzione da tutto ciò che li circonda. Naviga lenta la storia, immersa tra le ombre e luci artificiali di una glaciale periferia alla Gus Van Sant. Solca i densi silenzi del giovane protagonista restituendoci un’ inevitabile, subitanea simpatia ed empatia verso il legame che sorge piano, come un’ineluttabile alba nordica, tra Oskar ed Eli.
Non posso essere tua amica dice subito lei, ma poi man mano che la pellicola scorre le mani si toccano, e le parole riescono. Ci siamo dentro, l’invitiamo ad entrare. Adottiamo la “povera creatura” secolare ed inerme di fronte alla propria condanna: uccidere o morire.
La prima lettura alla quale si presta il racconto è la narrazione di un disagio che porta con se una propulsiva quanto violenta forza di reazione. L’uccidere come via per vivere diviene così l’altra faccia del vivere senza farsi ammazzare.
Predatori e preda entrambi dell’esistenza, i giovani protagonisti si fronteggiano in un gioco dove le regole non si vedono, ma si pronunciano in codici segreti, sintassi morse da proteggere dalla luce del sole.
Ma il lavoro di Alfredson ci illustra anche una prospettiva differente dei concetti di bene e male, li fonde come metalli per scinderli nuovamente, sotto diverse forme. Su tutte il volto di Eli, candido come quello d’un neonato dopo il pasto, la cui bocca sporca di sangue può baciare senza vergogna, perchè il sangue è vita, quindi amore.
Ed è l’amore per se stessi quello che la vampira insegna ad Oskar. Amore a scapito altrui, in una darwiniana lotta in cui solo il forte sopravvive.
Penetrante come un paletto ficcato in mezzo al petto.
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