Duncan Jones – dopo lo straordinario esordio con “Moon” – rinnova quella tensione ed utilizza la fantascienza come espediente per indagare le dinamiche più oscure ed intime dell’animo umano, e con il suo ausilio elabora una grammatica introspettiva che scandaglia la psiche e concentra l’attenzione sul tema portante dell’identità .
Bowie junior è abile a fondere le istanze della fantascienza classica con i blockbuster moderni, senza pagare dazio all’intrattenimento con la sofisticatezza del proprio sguardo, sviluppato con uno stile concreto ed impeccabile. Dentro tanta materia cerebrale batte un cuore caldo. Bentornata fantascienza, ci eri mancata.
Come rovinare un film grazie ad un titolo ridicolo (l’originale “The Guard” ossia La guardia) e una locandina peggiore grazie ai distributori italiani. Una black comedy eccentrica ed imprevedibile, condito dall’inimitabile humour irlandese, sulla figura insolita e solitaria di un personaggio da western al tramonto interpretato a un superbo Brendan Gleeson candidato al Golden Globe per il ruolo.
Sorprendente esordio dietro la macchina da presa per lo sceneggiatore McDonagh (fratello del McDonagh autore di “In Bruges”). Amara, esilarante e originale e politicamente scorretta “The Guard” è una delle migliori commedie delle commedie dell’anno ed una pellicola che lascia il segno.
Roman Polanski torna in grande stile con un’opera tratta dalle fortunata pièce teatrale della drammaturga francese Yasmine Reza (che collabora alla sceneggiatura) intitolata “Il dio della carneficina”. Sorretto da un cast eccezionale con ben tre premi oscar, Kate Winslet, Jodie Foster, Christopher Waltz e il sorprendente John C. Reilly ma soprattutto da una sceneggiatura che si avvale di ottimi dialoghi che incalzano la narrazione senza tediare o perdite di ritmo.
Essenzialmente “Carnage” è un film sull’incomunicabilità dell’essere umano, in una società che involve antropologicamente tornando alle primordiali lotte di sopravvivenza animali nella giungla umana per stabilire il primato. La teatralità della messa in scena non soffoca il potenziale visivo e narrativo bensì ne esalta i punti di forza che rendono questa commedia cinica e spietata.
Attingendo a piene mani dalle proprie esperienze adolescenziali, il regista Shane Meadows traccia il ritratto di un momento di storia culturale inglese spesso trascurato. Sullo sfondo di una deprimente cittadina, siamo i testimoni di un traumatico rito di passaggio, sia culturale che personale, osservato attraverso gli occhi di un ragazzino.
La parabola del giovane Shaun diventa così una metafora per una intera nazione, incapace di emergere da una situazione drammatica se non con il conformismo di una mentalità che cerca la forza nel gruppo ma non riconosce la dignità dell’altro. Una pellicola indipendente dura e coraggiosa che solo dopo cinque anni è stata distribuita nel nostro paese ma che è divenuta subito un piccolo cult.
Il pallino del Clooney regista è la politica ed al suo quarto cortometraggio continua ad indagare tra le pieghe del potere con una vicenda che si sviluppa tutta dietro le quinte in un susseguirsi di dialoghi serrati e tensione crescente grazie ad una messa in scena sofisticata ma dall’impalcatura narrativa classica.
Circondato da un cast d’attori di prim’ordine (Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Ryan Gosling, Evan Rachel Wood, Marisa Tomei) il bel George è abile a dirigere e orchestrare un thriller politico impegnato e patinato che riporta in auge il cinema americano che mette in campo lo star system di Hollywood all’impegno civile.
Una delle vere sorprese dell’anno. O’Connor gira un film sulla redenzione attraverso la metafora tematica tanto cara ed abusata del ring come occasione di riscatto. Ma qui siamo lontani dai canoni hollywoodiani, il suo è un cinema fatto di corpi piegati dalla volontà , che vola alto schivando a più riprese i clichè e le dinamiche del genere.
Un trionfo commovente di perdent,i essenziale, scarno e votato tutto sulla fisicità e la spettacolarità dei combattimenti.Una storia possente e solenne che rimane negli occhi e si conficca sottopelle.
Cupo, malinconico ed elegante il film di Mark Romanek è una storia d’amore atipica, insolita ed angosciante tratta dal bellissimo romanzo omonimo di Kazuo Ishiguro che si poggia sul genere fantascientifico pur non attingendo a nessun crisma del genere.
La storia di tre anime che crescono, amano e soffrono cercando di dare un senso alle loro esistenze, accettando con composto dolore il loro tragico ed ineluttabile destino.
Refn dirige un film di genere cinico ed originale che evita le trappole hollywoodiane del conformismo e soprattutto quelle del dejavù riuscendo ad articolare un meccanismo perfetto che si avvale di un montaggio straniante, angolazioni insolite che creano sorprendenti composizioni visive che si sincronizzano perfettamente con l’emotività e la tensione pulsante che viene sciorinata nella pellicola.
Incastrando una storia d’amore in un noir pulp difficile da dimenticare. Premio miglior regia al Festival di Cannes.
Un regista da seguire che si conferma uno dei migliori autori visionari dell’ultima generazione.
Il caso dell’anno. Una dichiarazione d’amore alla settima arte che in piena era digitale e tridimensionale torna alle origini del cinema, all’epoca del muto e del bianco e nero in un’opera indimenticabile, un gioiellino destinato a far breccia nei cuori di tutti i cinefili innamorati di quest’arte.
Un’opera tenera e leggera realizzata con stile e grazia d’altri tempi ma con piglio moderno. Ritmo, eleganza e passione sono gli ingredienti esplosivi di un film che rimarrà negli annali di storia del cinema e che regala in sala un esperienza sensoriale diversa, tutta giocata sulle immagini e lo splendido sonoro che accompagna la narrazione. Imperdibile.
Il film più atteso. Ancora più complessa di quanto fosse lecito attenderci. Le origini della vita in un percorso che attraversa spazio, tempo e memoria alla ricerca intima e umana del senso di tutto ciò che esiste. La mitologia dell’anima, contrasto tra natura e grazia secondo Terrence Malick, che parte dal privato per giungere all’universale in un gioco di metafore, simboli, dialoghi in una sinfonia d’immagini complessa e affascinante per raccontare la storia di una famiglia americana degli anni 50 come se fosse solo una cellula infinitesimale ma palpitante nel cosmo e nel processo di creazione.
Un film immenso che non si esaurisce nella semplice visione, che ne necessita ulteriori e ridisegna i confini stessi del cinema e che probabilmente non è nemmeno di questa epoca.