Il 20 luglio 1944 ebbe luogo l’ultimo dei numerosi attentati progettati per uccidere Adolf Hitler: il tentativo, messo in atto da un manipolo consistente di ufficiali e politici tedeschi, vide nel colonnello Claus Von Stauffenberg, il suo esecutore materiale.
L’elaborato e geniale piano, nacque dalle basi dell’effettiva esistenza di una serie di provvedimenti, redatti in previsione di una possibile emergenza di stato; tuttavia, una successione di imprevedibili e fortuiti eventi salvò la vita del Fà¼hrer, stabilendo l’immediata e inevitabile morte di quanti ebbero partecipato al complotto.
Bryan Singer aveva già affrontato il tema nazista ne “L’Allievo” (1998), nel quale un ragazzo scopre la reale identità di un criminale di guerra, ormai anziano, restandone perversamente affascinato. Non risulta perciò casuale la scelta del regista newyorkese di affidare le proprie riflessioni sull’argomento non alle vittime dell’Olocausto, bensì ai responsabili di tale Orrore; una decisione che, ad una maggiore valutazione, si rivela tutt’altro che insolita: alla definitiva e indiscutibile pietà per le vittime, Singer predilige lo studio introspettivo dei colpevoli, tentando di individuare dubbi, rimorsi, turbamenti, nella speranza, probabilmente, di riconoscerne suggestioni diverse dalla pura malvagità . In questo senso, “Operazione Valchiria”, rappresenta non tanto la riabilitazione parziale di un popolo, quanto una risoluta preghiera di fiducia nell’animo umano, annerito, offeso, lacerato, dalla follia nazista: Molti riconobbero il male. Alcuni osarono sfidarlo.
Passando al punto di vista prettamente cinematografico, la sceneggiatura di Christopher McQuarrie e Gilbert Adler appare coerente e verosimilmente accettabile, delineando una concentrazione di avvenimenti di costante efficacia, in armonia ad un montaggio accortamente eterogeneo: ora rifrazione immobile dell’impercettibile smorfia, ora concitata espressione di dinamismo, ora diluita nebbia crepuscolare, ora nervosa apprensione.
La fotografia e la scenografia assecondano un’atmosfera di imperante avvilimento, soprattutto negli esterni, inquadrati dentro spazi larghi e vuoti, guastati dagli imponenti feticci del Reich. Se il grigiore dei luoghi aperti e l’irritante regolarità degli interni provocano l’angoscia del recluso, illuminanti di un calore insperato e precario sono invece le scene seguenti all’attentato, riprese negli uffici brulicanti di telefonate e di sguardi confidenti. L’oscurità delle fucilazioni non ha solo l’aspetto effettivo dell’ora notturna: allude pure alla cieca vergogna della violenza e alla perdita dolorosa della rivalsa.
Singer realizza una pellicola che al di là delle necessarie sequenze di azione, tra l’altro ottimamente eseguite, dedica particolare attenzione ai dettagli dei volti, statici e imperscrutabili, impauriti e confusi. Grande merito per il giudizio positivo del film va alla presenza di attori talentuosi che sostengono le varie emozioni richieste. Tom Cruise si rivela credibile nel ruolo di Von Stauffenberg, attraverso l’esposizione del volto dotato di contraffatta indifferenza, appena alterato da un ghigno inquieto.
Inutile negare l’importanza concettuale di un prodotto come “Operazione Valchiria” che, da frutto artistico, assume altresì valenti connotazioni di testimonianza; oltre al significato contenutistico, è sorprendente comunque la capacità di creare ansia, stimolare l’immedesimazione, suggerire la partecipazione. Come il “Titanic” di Cameron suscitava condivisione di sensazioni nei confronti di una circostanza accaduta anni prima, anche l’opera di Singer riesce ad entusiasmare nonostante l’esito accertato della vicenda.
“Operazione Valchiria” è stato definito da molti come una pellicola solida, dal vigoroso respiro bellico; l’opinione personale di chi scrive prende atto invece dell’abilità emotiva che possiede. “‘Empatico’ è l’aggettivo che meglio identifica la peculiarità di “Valkyrie”, intesa nella traduzione più letterale del termine greco “‘empátheia’: passione.
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