Clap Your Hands Say Yeah, Autoprodotto, Scena Seconda. Dopo tutto questo parlare ““ blog soprattutto ““ si pensava che i CYHSY avessero ancora molto da dire; che non fossero una semplice sirena: sempre più forte man mano che si avvicina, per poi dissolversi ““ allontanandosi ““ fino a scomparire. Il primo disco della band di Brooklyn fu come un cristallo rotto nella quiete di una stanza: si pensò fosse l’inizio di qualcosa di grande, di un nuovo genere musicale.
Questa volta il rumore vorrebbe essere ancora più forte: un tuono fragoroso che scuota e che ““ per questo ““ venga ricordato. Ma il risultato che genera non è quello tanto sperato ed atteso (almeno per le orecchie del sottoscritto): assomiglia piuttosto ad un suono astratto, figlio di una stagione fredda e buia. La voce di Alec Ounsworth oscilla tra un Julian Casablancas a fine corsa ed uno Spencer Krug poco ispirato, molto più vicino all’esperienza Swan Lake che agli altri suoi progetti (“Love Song No. 7″³). I CYHSY cercano qui di fare “i strani”, mischiando strumentazione classica (piano, fisarmonica, chitarra acustica) con “rumorose” deframmentazioni/percussioni (“Emily Jean Stock”) ed effetti elettronici; destrutturano la forma canzone con inserti “giocosi”, che però risultano spesso fuori luogo (“Yankee Go Home”); per assurdo, i pezzi migliori sono quelli più “tradizionali”, dove i cinque newyorkesi si “limitano” a cercare di produrre buona musica.
Probabilmente ““ un giorno forse ““ la bellezza segreta della loro musica verrà rivelata: per il momento però, rimane un disco ascoltabile ““ a tratti godibile ““ e poco altro da dire.