Frank Ocean, già ghost-writer per nomi piuttosto famosi (e discutibili) del music-biz, nonchè voce e mente soul del collettivo OFWGKTA, era attesissimo alla prova del primo disco solista, dopo il grandioso mixtape dello scorso anno “Nostalgia, Ultra”, dopo i featuring in “Watch The Throne” e dopo una breve serie di anticipazioni davvero gustose.
Non solo, le sue recenti dichiarazioni sulla propria bisessualità (dichiarazioni che eviteremo di commentare perchè non sarebbe questo il posto adatto, sottolineando solamente come egli sia il primo artista di matrice black ad esplicitare il proprio orientamento sessuale lontano da machismi e stereotipi pimp) hanno sicuramente attirato su di lui (e conseguentemente sulla sua opera) attenzioni esterne al mondo musicale.
Bè, nonostante un hype sospetto e perfettamente organizzato, le aspettative per questo esordio sono state tutte ampiamente coronate: sin dall’iniziale e incantevole “Thinkin Bout You” assistiamo al sorgere di una nuova e luminosissima stella nel firmamento black.
“channel ORANGE” declina soul con un’attitudine nuova: è sempre la splendida voce di Ocean a caratterizzare le composizioni, accompagnata da tappeti strumentali essenziali, da poche profonde percussioni. Persino un beat-maker affermato come Pharrell, solitamente riconoscibilissimo nelle proprie produzioni, si adatta delicatamente allo stile di Frank offrendo il pregiato battito funky-pop che sorregge la radiofonica “Sweet Life”.
Poche altre le collaborazioni nei cinquanta minuti dell’album: Earl (suo giovane collega nella Odd Future Gang) nella dinoccolata e polemica “Super Rich Kids”, l’Outkast Andre3000 nel crossover blues futuribile di “Pink Matter” (“what do you think my brain is made for? Is it just a container for the mind? This great gray matter”); ma ogni pezzo meriterebbe un paragrafo dedicato, dal minimalismo folk di “Pilot Jones” (certamente sommessa, ma comunque una delle mie preferite, per dire) al bignami dance di “Pyramids” (dieci minuti in cui Frank affronta disoccupazione, provincia americana, amori giovanili e strip-bar tra echi step e spazialità techno).
Aggiungete poi che Frank è anche ottimo scrittore, capace con poche parole di rappresentare idilli romantici e situazioni difficili (la dipendenza dalla droga in “Crack Rock”, il bisogno di difendere la propria sfera privata dall’invasività religiosa nel brillante gospel di “Bad Religion”: <if it brings me to my knees, it’s a bad religion), e capirete di avere tra le mani un vero disco-gioiello: oceanico, proprio come il suo autore. Grazie Frank.