In un Febbraio che ha regalato l’atteso e sospiratissimo ritorno dei My Bloody Valentine, i newyorkesi Psychic Ills pubblicano il quarto album. Ormai stabilmente accasati presso la Sacred Bones e dopo essere sopravvissuti ai turbolenti cambi di formazione che avevano probabilmente influenzato la riuscita del precedente “Hazed Dream”, Tres Warren, Elizabeth Hart, Chris Millstein e i due Davis (Scott e Scott Ryan) provano a lasciare il mondo dei sogni per tornare alla realtà più concreta.
“One Track Mind” è stato prodotto da Neil Michael Hagerty dei Royal Trux, che non intacca il sound psycho- country della band ma gli conferisce una maggiore accessibilità . Abbellito da un artwork di Powell St. John dei 13th Floor Elevators, il disco è più rock e uptempo rispetto al recente passato. Orecchiabile e un po’ lezioso in “One More Time”, sembra fatto apposta per finire in qualche playlist radiofonica grazie al riff graffiante e al refrain killer di “Might Take A While”. “Depot” si merita il premio di pezzo più riuscito tra le varie canzoni di tre / quattro minuti: chitarre acide come ai bei tempi, con una compattezza tutta nuova. Gli Psychic Ills però, come tutti i gruppi psych, hanno bisogno di spazio per tirar fuori tutto il loro ipnotico potenziale. Non sorprende quindi che il meglio Warren e soci lo diano quando si lasciano andare a lunghe jam tipo “Tried To Find It”, “See You There” o “Drop Out”. Ma alla fine di ogni brano c’è qualcosa che non torna: come se i cinque procedessero col freno a mano tirato, controllando l’orologio di continuo, ben attenti a non esagerare, a porsi dei limiti da non superare. L’influenza anarchica dei Butthole Surfers sembra svanita, spazzata via da qualche compromesso di troppo.
Pur essendo diverso da “Hazed Dream”, “One Track Mind” finisce per soffrire dello stesso difetto. Gioca con le mille sfumature e morbidezze della psichedelia, con atmosfere fumose e indolenti cambi di ritmo, senza particolari acuti. Lo si ascolta aspettando sempre che arrivi quel dettaglio azzeccato, quel piccolo particolare che te lo faccia piacere tutto quanto e definitivamente. Ma non succede mai, e sulle note dell’armonica tex mex di “City Sun” (così simile a quella di “Mexican Wedding” da fare spavento) cresce la malinconia e aumentano i dubbi. I vulcanici fasti di “Dins” del 2006 e i viaggi sonori di “Mirror Eye” sono lontani, non solo nel tempo. E’ come se da due album a questa parte gli Psychic Ills fossero un’altra band: rifinitissima, semplice da catalogare, meno coinvolgente. Ormai il quintetto sembra aver scelto un nuovo stile e pare convinto a continuare così, senza voltarsi indietro. “One Track Mind” non è il loro disco più riuscito. Anche se ha più mordente e varietà del predecessore, fatica maledettamente ad ammaliare e stregare lasciando dietro di sè qualche perplessità .