Dopo quindici anni di attesa, torna al cinema il pensionato Indiana Jones per compiere (si spera) la sua ultima avventura nel tentativo di salvare il mondo, di nuovo, dai nazisti.
Diciamocelo con molta franchezza: la Disney sta veramente scavando per cercare di rinfrescare questo mercato cinematografico. A volte ce la fa, a volte no. In questo caso, e parlo del nuovo film con protagonista Indiana Jones, il risultato è a metà. Se da una parte siamo tutti sollevati da un risultato sicuramente migliore del quarto capitolo (vi ricordate i famosi teschi di cristallo no?), dall’altra ci chiediamo fino a quando potremo far combattere l’ottantenne Harrison Ford.
Con “Indiana Jones e il Quadrante del Destino” ci ritroviamo nel 1969, a New York, dove l’oramai pensionato Henry Jones s’imbatte dopo tanti anni nella sua figlioccia, Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), figlia del professor Shaw (Toby Jones). I due ripercorrono gli ultimi anni dell’amico e padre inglese, nel tentativo di ricomporre tutti gli indizi che portarono l’accademico alla follia. Una follia causata dalla ricerca del pezzo mancante del Quadrante del Destino progettato, e poi costruito, da Archimede. In cerca quindi della seconda parte nascosta, i due dovranno vedersela con un vecchio nemico di Indy, Jurgen Voller (Mads Mikkelsen) che non solo è anch’esso un accademico, un fisico per l’esattezza, ma in aggiunta pure nazista. E di quelli proprio fissati.
Senza andare troppo nel dettaglio, ora vi spiego perché questo film funziona e allo stesso tempo non funziona . La pellicola è ottima se si guarda alla co-protagonista, Waller-Bridge, che porta finalmente una ventata di ironia e cazzutaggine un po’ come Marion (Karen Allen) nel primo e quarto film. Senza di lei, sarebbe tutto perduto. Inoltre, ritroviamo vari personaggi dimenticati degli episodi precedenti che, anche se per poco, ci fanno ritornare il sorriso sulla faccia. La trama in sé non è oscena: il Quadrante è veramente un manufatto antico usato come espediente per l’evoluzione di tutto l’arco narrativo (il famoso McGuffin). Da qui un po’ ci si perde e un po’ ci si riprende, tenendo sulle spine gli spettatori come ammorbandoli con scene lunghissime e dopo poco noiose. Però, e qui dico almeno, non mancano le classiche scene all’Indiana Jones: perdute caverne o templi con misteri e scritte da decifrare, trabocchetti mortali e tanti, tanti insetti con in sottofondo le iconiche e magistrali musiche del grande John Williams.
Quello che infatti non funziona nel film è in primis questo: la prima ora e mezza (circa) è molto lunga e alquanto noiosa. Il sapore della ricerca, del mistero, si perde tantissimo per dare spazio ad inseguimenti veramente troppo costruiti. A questo si aggiungono altri e diversi fattori: per come si sviluppa il finale, le varie alternative sono comunque banali (non posso andare troppo nel dettaglio, scusatemi. Mi capirete però solo dopo averlo visto); le sequenze flashback con gli attori ringiovaniti grazie all’intelligenza artificiale sono inguardabili e poco rappresentativi; infine, Mads Mikkelsen che interpreta letteralmente lo stesso personaggio del penultimo film, solo con un obiettivo in testa diverso.
Insomma, questo nuovo Indiana Jones ti lascia diviso a metà. Non rimani nè soddisfatto nè completamente deluso. Sicuramente questi reboot hanno stancato, piuttosto che si facciano dei remake e via il dente via il dolore. Il fatto di portare avanti una saga non è mai sinonimo di buona riuscita, e infatti questo è successo sia per i teschietti di alto pregio, sia per la nuova trilogia di Star Wars e non vado oltre.
Comunque vada, questo nuovo capitolo delle avventure di Mr. cappello e frusta ha dei momenti veramente iconici, proprio perché rimandano ai vecchi film e di conseguenza, in qualche modo, il cuore ti si apre e piange. Morale della favola: lo consiglio? Se avete voglia di andare al cinema a vedere qualcosa di leggero, non perfetto, ma amarcord questo è il film giusto. State tranquilli che, almeno qua, il risultato è sicuramente migliore del suo predecessore.