Forse è tutta colpa del passato – il cuore e le mani che grondano odio e violenza. Forse per questo i due anni da “The Great Destroyer” (2005) sono coincisi con l’esaurimento nervoso di Alan Sparhawk e l’abbandono di Zak Sally, bassista di lungo corso sostituito con Matt Livingston. Se consideriamo inoltre che la musica dei Low fa parte di quel “filone” minimalista e sottostimato, che generalmente concede alle band lo spazio di un paio di album prima di liquidarle (vedere Galaxie 500, Codeine, Slint, Portishead, ecc.), è già tanto che il trio (compresa la moglie di Alan, Mimi Parker) di Duluth (Minnesota) sia ancora insieme. Eppure, se dal passato non ci si può nascondere (e non basta una pillola per cambiare il mondo che ci circonda), tanto vale ritornare a quel tesoro che ci portiamo dentro (e – soprattutto – trovare il modo per procurarsi più pillole).
“Drums & Guns” è l’ottavo LP della band, il secondo per Sub Pop ed anche il secondo prodotto dall’abile Dave Fridmann (Mercury Rev). A dispetto del titolo, non si tratta di un album esplicitamente politico – sebbene le liriche risultino abbastanza ambigue da poter essere interpretate sia come frutto di un tormento privato che dell’agitazione sociale. L’album segne dunque l’abbandono del nichilismo “poppy” del precedente album ed il ritorno allo slowcore minimalista che ha fatto la fortuna del gruppo, senza però tralasciare l’esplorazione di nuovi territori. Lo sguardo sul passato avviene però da una finestra polverosa, che lascia intravedere soltanto il lato più oscuro del sole. Le tredici tracce (parte delle quali già note ai fans attraverso i concerti) diventano così tredici ferite di membra spezzate e sangue che gocciola, che riassumono la carriera dei coniugi Sparhawk e, allo stesso tempo, gettano una nuova luce (spettrale) sul futuro: riecco allora le chitarre, la batteria ed il cantato scarno (essenziale, nudo fino alle ossa!), particolarmente riscontrabile nel quasi-industrial “Dragonfly”, che si regge soltanto su un campionamento di catene; e nel trip-hop di “Breaker”, la cui intelaiatura (un battito di mani ed il suono drone di un organo) viene strutturata soltanto su di un semplice beat e sul lamento di Sparhawk; ma anche le drum machines marziali ed inesorabili (“Always Fade” e “In Silence”), le campane della chiesa di “Take Your Time”, il basso mortifero ed insistente di Livingston (“Murderer”) e l’organo distorto e le percussioni fragorose di “Your Violent Past”).
Il risultato finale è un album da ascoltare in cuffia, per catturare ogni minima variazione del suono; un disco vicino a “Songs For A Dead Pilot” EP (1997) ed ai remixes di “Owl” (1998) piuttosto che a classici come “Long Division” (1995); un lavoro freddo – quasi meccanico – che si vuole innalzare a termine di paragone e capostipite di un genere per le future generazioni e – proprio per questo – difficilmente catalogabile e soltanto a tratti riconducibile ai Radiohead del dopo “Ok Computer” (compreso il Thom Yorke di “The Eraser”) o ad alcuni lavori dei Mercury Rev. In breve, se – come canta Sparhawk in “Pretty People” – siamo tutti destinati a morire (soldati, bambini, poeti e bugiardi), “Drums & Guns” si candida – a mio modesto parere – ad essere uno dei migliori album di questo 2007 – e non solo.