Non succede poi così spesso di sorprendersi per un disco nuovo, specie se durante l’anno se ne ascoltano tanti. Il più delle volte invero anche quelli che piacciono sanno di già sentito, assomigliano a qualcos’altro, ragion per cui quando ti capita un lavoro particolare e di qualità lo percepisci subito.
A me è successo di recente con gli Aguirre, capitanati dal leader Giordano De Luca, che a distanza di più di dieci anni dal loro esordio discografico, sono tornati con “Belle Epoque” (pubblicato dalla label Snowdonia) evidenziando un salto di qualità su più livelli. I quindici brani che lo compongono sono tutti diversi fra loro ma sta proprio in questa alternanza di umori e stili l’unicità di un lavoro che poi è la peculiarità dello stesso gruppo romano.
A risaltare nell’ambito di un caleidoscopio ascrivibile all’alternative rock (ma forse più all’art-rock) è il linguaggio, narrativo e musicale, fatto di contrasti e fratture, in grado certamente di spiazzare ma pure di affascinare. Ciò si evidenzia sin dalla cadenzata title-track così come nella conclusiva dolce-amara “Alla mostra di Guttuso“ (emblematica in tal senso), senza tralasciare episodi chiave come la poetica “Il navigatore“ l’intensa “On n’échappe pas à la machine“ che sfocia in un coinvolgente valzer o “L’anacoreta” con i suoi piani e forti memore di certo grunge. Ogni dettaglio, compresa la copertina ad opera di Andrea Barazzutti denota una forte personalità, e concorre al convincente risultato finale.
Abbiamo contattato Giordano De Luca per saperne di più al riguardo.
Ciao Giordano, buongiorno, è un piacere parlare con te. Sono rimasto molto sorpreso in senso positivo ascoltando questo album ma voi ne avevate pubblicato già un altro omonimo dieci anni fa. La gestazione è stata lunga, possiamo chiamare quello con “Belle Epoque” un nuovo inizio? Cos’è cambiato in voi a livello di gruppo? Avete acquisito una nuova maturità e consapevolezza su quello che intendete proporre?
Ciao Gianni, il piacere è anche mio. È cambiato parecchio, non solo intorno a noi, in questi dieci anni: facendo riferimento al primo disco mi vien da dire che è uscito un po’ prematuramente, e fa strano pensarlo visto che non eravamo giovanissimi e venivamo tutti da altre esperienze musicali. Ero uno faceva musica noise, improvvisazione, cantavo in vari progetti ma in parallelo già da diversi anni scrivevo canzoni, anche se le ho tenute a lungo per me senza farle ascoltare.
A un certo punto i tempi sono diventati maturi per fare un disco di brani miei, ho chiamato Martino Cappelli come chitarrista, la bassista Alice Salvagni, poi ho conosciuto i fratelli Switala (Stefano e Davide). Abbiamo registrato i brani senza un’attività live pregressa, quindi è un disco creato in modo abbastanza eterodosso, molto in studio, molto prodotto con i suoi pro e i suoi contro: pro, poiché avevamo un direttore artistico come Stefano Switala, un musicista molto capace, impegnato in colonne sonore (che poi subentrò anche come chitarrista ritmico negli Aguirre); di contro però non eravamo coesi, non avevamo ancora un nostro suono. Certo, è un album a cui tengo ancora molto perché era la prima volta dove pubblicavo canzoni mie (che tra l’altro facciamo ancora adesso), ma se senti quel disco e poi i live che facevamo, beh, avverti uno scarto notevole.
Ci sono state varie vicissitudini, non è facile portare avanti un progetto che non ha grosso mercato; a un certo punto i fratelli Switala se ne sono andati, abbiamo cominciato a lavorare a un disco nuovo e avevamo già contattato la Snowdonia (di cui io sono un grande fan da sempre, da vent’anni li seguo come etichetta e quando esce un disco pubblicato da loro me lo vado a sentire): a Cinzia La Fauci erano piaciute le canzoni e piano piano ci siamo messi a lavorare sui brani nuovi. Mancava un batterista e quando è arrivato Giulio Maschio ci ha anche fatto svoltare sotto certi aspetti perché è molto eclettico (ha suonato cose molto diverse, dal reggae al free-jazz, dal pop al metal), ma in fondo anche tutti gli altri componenti lo sono più di me con gli strumenti. Ne è uscito un disco lungo, abbastanza complesso, pieno di strumenti, di ospiti, che in sostanza suona come siamo noi: quando sento le chitarre sento Martino che suona, c’è lui, col suo spirito e così vale per tutti gli altri!
Il primo disco aveva tutto un altro carattere essendo incentrato sulle prime canzoni che avevo scritto, mentre questo viene dopo anni di concerti e pur con il cambio di formazione di mezzo che ci ha privato di un chitarrista ritmico, abbiamo sempre continuato. Prima io cantavo, suonavo la tastiera e qualche volta la chitarra acustica, ora invece ho aggiunto la chitarra ritmica e da quintetto siamo diventati un quartetto.
Tu sei l’autore principale di testi e musica, quando sentii l’album la prima volta ho pensato che avessi tanta personalità, oltre che un grande talento. Ho notato molta attenzione sia ai testi che alle musiche, e volevo capire se ti senti più autore o più musicista, visto che è un aspetto un po’ inusuale almeno in Italia questo bilanciamento, tanto che anche i migliori gruppi in genere sembrano pensare più ai testi. Volevo chiederti inoltre: come nascono i pezzi? Li porti in studio già con una struttura definita e poi li rifinite insieme, oppure è già tutto ben delineato nella tua testa?
Grazie delle tue parole! Io in verità ho una formazione musicale abbastanza disordinata, nel senso che ho preso delle lezioni di piano da bambino, poi lezioni di chitarra in una scuola, un po’ di canto in un’altra, quindi non avendo una formazione organica mi definirei più un semi-autodidatta.
Sono sempre stato interessato alla composizione principalmente, all’armonia; è un approccio non tipicamente da cantautore, quale potrei definirmi visto che me le scrivo e me le canto, ma come detto do’ molto spazio all’aspetto musicale e alla struttura globale dei brani, certo anche i testi rivestono una loro importanza e ci sto sotto un bel po’ di tempo anche in quel caso.
I testi quindi arrivano dopo?
Dipende, di solito sì, ed è anche un lavoro complesso perché io sono piuttosto rigoroso sulle linee melodiche e, non avendo quell’approccio cantautorale, devo fare in modo che tutto si incastri bene. Non mettendo in genere la musica al servizio dei testi, impiego più tempo per riuscire a svilupparli, diciamo che sono più veloce come compositore che come autore di testi.
Il mio lavoro d’altro canto vive di parole – di mestiere faccio lo sceneggiatore, scrivo – , quindi in effetti non riesco a dirti se è più importante questo aspetto o quello, per me sono di pari importanza. Seguo molto l’inclinazione dei pezzi, dove va l’ispirazione: alcuni sono quasi strumentali, ce n’è uno che si chiama “Mr. Feerich“ dove il testo è quasi un pretesto per riempire la linea, e altri invece dove la parola ha un’importanza decisamente maggiore.
Lavorate insieme sugli arrangiamenti?
A parte il brano “Una situazione“, dove Martino aveva realizzato quel bell’inciso strumentale che funge in pratica da ritornello e io ho sviluppato strofa e parole, per il resto ho sempre scritto tutto io un po’ perché il progetto è nato così (fai conto che ho già circa 150 canzoni complete, così tanto materiale che probabilmente morirò senza aver registrato tutto e continuo a scrivere!), ma non essendo un cantautore e avendo voluto costruire una band significa che, nel momento in cui andiamo in sala gli arrangiamenti sono collettivi. Magari tu hai un’idea di base, ad esempio se scrivi una ballata penserai a un certo tipo di ritmo e suoni, però sullo sviluppo delle parti il lavoro diventa sempre collettivo.
È bello che il suono abbia un’identità da band e non da un autore che si mette lì assieme a dei musicisti che gli servono in quel momento. Mi piace che emerga questo: da un lato ci sono le canzoni che nascono da me, che però poi si sviluppano pienamente con il sound di un gruppo vero e proprio quale in effetti siamo.
I tuoi testi sono particolarmente originali e fatico a scorgervi una componente biografica che invece spesso è prerogativa degli autori; è così o in realtà c’è un filo conduttore che lega questi quindici brani, un’idea di fondo che li sorregge?
Non sarei onesto a definire “Belle Epoque” un concept-album, perché io non scrivo i pezzi per un singolo disco, dal momento che ne avevo pronti appunto una marea; perciò qui dentro ve ne sono finiti alcuni scritti pochi mesi prima di registrare e altri magari risalenti a dodici anni fa!
Spero però che il filo conduttore sia musicale, che questo lungo arco narrativo sia accomunato dal contrasto degli elementi, che è un aspetto molto importante per me. Personalmente cerco di evitare l’autobiografismo, perché dal mio punto di vista reputo un po’ limitante il parlare di se’, o meglio posso partire da una cosa anche tanto autobiografica ma poi la devo trasfigurare, ho l’esigenza che l’ascoltatore non debba capire che sto parlando per forza dei fatti miei, e che possa invece immaginare uno scenario e magari fare sua quell’esperienza che sto raccontando.
E’ un disco che non vuole seguire certe regole codificate, un po’ per la forma, un po’ per la durata, un po’ per i testi che sono talvolta spigolosi, o per questo rapporto dialettico anche all’interno dello stesso pezzo dove mi piace andare per contrasti.
Insomma, per tutti questi motivi, mi viene da attribuirgli una valenza “politica”, non certo nel senso di militante, ma politica perché va contro certi cliché, quali possono essere l’immediata riconoscibilità stilistica, la compattezza, la brevità: è, se vogliamo definirlo, “programmaticamente contro” e le canzoni risentono di questa cosa, specie in quei testi dove c’è un percorso di fratture nell’accostare un linguaggio poetizzante a registri triviali.
Ecco, ti dirò che all’inizio questa doppia valenza mi strideva un po’ (penso a un brano intenso come “Alla mostra di Guttuso” dove il contrasto non è solo tra musica e parole, ma anche all’interno dello stesso testo), però poi ho capito che a sorprendermi in senso positivo erano le direzioni che riuscivano a prendere certe canzoni. Trovo questo linguaggio molto particolare, come nascono queste suggestioni? Sono frutto di una forma mentis tua nello scrivere o hai tratto ispirazione da qualcosa per arrivare a questo risultato?
A livello di formazione, anche culturale, devo molto allo scrittore e critico russo Viktor Sklovskij che nel suo “La mossa del cavallo” fa riferimento all’idea della frattura, del cambio di direzione repentino: è un concetto questo dei formalisti che mi ha molto influenzato, lo spezzare e, facendo ciò, creare un rapporto dialettico fra le parti anche conflittuale.
Questa cosa a me viene naturale, non è che mi metto a scrivere e dico: “adesso inserisco un vaffanculo!”; non viene a tavolino, è un registro che amo adottare e il cui utilizzo a seconda dei casi può avere una funzione liberatoria o rappresentare un qualcosa che improvvisamente ti tira giù ma allo stesso tempo ti può far vedere anche l’aspetto poetico di un momento triviale.
Ti faccio un esempio altissimo, che non è un paragone ci mancherebbe, è solo per farti capire chi utilizza questo metodo per fare cose di gran valore artistico: un compositore che amo molto è Mahler, che nella sua prima sinfonia (e dette scandalo questo fatto) mettendo una marcia funebre la fa usando come tema principale quello di “Fra’ Martino campanaro“. In pratica lo abbassa da maggiore a minore e il tutto diventa “triste” ma di fatto è “Fra’ Martino campanaro“!
Ecco, questa cosa mi ha formato molto e la riscontro anche nel cinema, che amo molto visto che mi occupo di quello; ti cito un altro caso emblematico: Marco Ferreri, un autore di alto livello ma che allo stesso tempo aveva dei “crolli”, voluti ovviamente e perseguiti in maniera naturale, proprio come tipo di espressione. Quindi le influenze ci sono ma, a ben pensarci, credo di averla sempre avuta questa componente, mi attira l’accostamento di contrasti e ciò inevitabilmente si riflette nella musica e nelle parole che uso.
Vuoi dirmi che lo fai anche nel privato, con la tua compagna o con la band?
Ah, ah (ride),in realtà sono estremamente mite nel privato, una persona molto tranquilla, però sia quando sto sul palco o anche fuori da quel contesto, ogni tanto quando qualcuno mi fa arrabbiare cambio completamente registro e non di rado le persone sono rimaste spiazzate da questo atteggiamento, quindi questa caratteristica è innata mi sa!
Io quando sento la persona suonare mi accorgo sempre che suona come parla, suona come si muove, è inevitabile, sia che uno faccia cose più di ricerca, sia che faccia cose più commerciali, no? Uno deve essere autentico sul palco, devo ritrovarvi lo stesso piglio che ha quando parla, si deve esprimere nel modo più naturale possibile.
Questi contrasti riguardano non soltanto i testi ma anche le musiche, sono frequenti nel disco dei cambi di direzione che mi hanno affascinato, penso a “Il richiamo”, “Il navigatore” e alla sua coda psichedelica, per non dire del finale, bellissimo di “On n’échappe pas à la machine”. Sono soluzioni che a mio modo di vedere arricchiscono molto il disco.
Ti ringrazio perché con queste parole mi dai il gancio per aprire una parentesi doverosa a questo punto sugli ospiti di questo disco, i quali sono tanto importanti.
Proprio in “On n’échappe pas à la machine” ho chiamato un grande musicista, Luca Venitucci, un fisarmonicista che si muove per lo più nell’ambito della musica sperimentale e dell’improvvisazione. Avevo scritto questo valzer e gli ho detto: “dopo che ho finito di cantare, ti pigli due minuti e fai quello che ti pare” e ne è uscito quello che puoi sentire, di cui siamo tutti molto orgogliosi.
Chiamare a collaborare persone come lui, che è geniale, ti permette di proporre determinate soluzioni, è un po’ la filosofia che adottano anche i Maisie, quella di collaborare con vari artisti e questa cosa aiuta tantissimo, proprio nello sviluppo e nella realizzazione delle idee.
Poi se già di partenza noi Aguirre siamo ognuno portatori della nostra differente esperienza, le cose si amplificano ancora di più. Per noi è una fortuna il fatto di essere tutti e quattro dei musicisti di estrazione diversa, perché la sintonia che siamo riusciti a creare, l’unione tra le nostre diverse storie musicali è finita per diventare un valore aggiunto.
Qual è la dimensione che preferisci, lo studio, il lavoro sui pezzi in fase di scrittura e composizione o ti piace di più il live?. Come riuscite a trasferire sul palco queste canzoni che specie in alcuni casi sono anche molto complesse? Mi verrebbe da definirle un rock d’autore.
È complesso infatti, quando all’inizio ti accennavo alla difficoltà di portare avanti un progetto quando è “fuori mercato”, intendevo che nel nostro caso non puoi provare tre volte a settimana, otto ore, perché si tratta di brani su cui devi lavorare e ciò comporta necessariamente un po’ di tempo; non c’è niente da fare, per preparare al meglio i brani bisogna lavorarci!
Certo, a noi piace molto suonare dal vivo, abbiamo fatto tanti concerti dopo il primo disco, meno purtroppo negli ultimi anni. In concerto siamo più basici, più rock, anche se suono pure l’acustica, quindi ci sono degli elementi folkeggianti a tratti, ma fondamentalmente ritengo che laddove si perdano diverse sfumature del disco, di contro si acquisti in una dimensione simile un approccio più diretto, più rock appunto.
Personalmente sul suonare dal vivo io sono sempre diviso, lo ammetto: amo moltissimo farlo, sento che è il mio ambiente, dove vorrei vivere, però dall’altra parte sono anche molto emotivo, molto ansioso, quindi io ho il terrore del palco! Soprattutto quando canti parole tue, è un po’ come uscire in mutande, ragion per cui ho sempre questa ambivalenza, questo approccio conflittuale… voglio suonare tanto ma poi impiego davvero tantissime energie perché mi sembra a volte di morire prima di salire sul palco, e ciò mi accade indipendentemente se ci sono dieci persone o cento.
Sta cosa di essere agitato d’altronde mi capita un po’ anche quando devo far sentire le canzoni a loro, ad Alice, Martino e Giulio. Magari ne propongo trenta o quaranta, e quei primi feedback sono importanti, perché poi facciamo la scrematura assieme su quelli che finiranno sul disco.
Un disco che è appena uscito e dal quale vi aspettate qualcosa in particolare? Vi siete posti un obiettivo come band, volete crescere ancora dal punto di vista artistico o commerciale? (ok, mi hai detto che non siete più giovanissimi, però dai la musica non ha età!).
Sai, sugli obiettivi non è facile rispondere, ripeto non siamo più giovanissimi però il rock se vogliamo non è più una musica generazionale; non sono esperto di questioni tipo il target di riferimento ecc., ma credo ci potrebbero ascoltare di più le persone dai 30 in su, anche se ho sentito qualche ragazzo di vent’anni a cui eravamo piaciuti, quindi non si può mai dire.
Spero che il progetto possa avere una sua storia all’interno della musica indipendente italiana, possa essere apprezzato. Ci preme essere apprezzati, se uno scrive delle cose – e arrivo a dirlo io che per anni appunto ho scritto cose senza farle ascoltare -, nel momento in cui decidi di farlo è perché vuoi essere un po’ amato. Lo diceva anche Dario Argento: “faccio cinema perché voglio essere amato!”.
Potrà sembrare infantile ma è così, e credo che a parte alcune eccezioni di personaggi molto particolari, la cosa valga per tutti. Per il resto, non abbiamo chissà quali speranze a livello di mercato, ma di certo siamo molto felici di stare con un’etichetta come la Snowdonia: per me è già questo un grande motivo di orgoglio!
È fuori mercato da un punto di vista del mainstream diciamo, però è un’etichetta molto illustre per me, perché pubblica pochi dischi ma tutti di livello, ha una sua storia, una sua credibilità e una forte riconoscibilità.
Mi auguro che il progetto riesca ad andare avanti, che facciamo serate, andiamo in giro e che lavoriamo già a dei brani nuovi, perché l’ultima cosa che vorrei è far passare altri dieci anni prima di pubblicare un altro album, perché sennò davvero non faccio tempo a registrarli tutti!
In chiusura Giordano, c’è una canzone adatta per rappresentare l’intero album, non dico per forza la più bella, ma quella che più vi identifica e che faresti sentire a un alieno che scende sulla Terra per dimostrargli chi sono gli Aguirre?
È difficile risponderti perché cambiamo molto registro tra una canzone e l’altra, però ammetto di essere molto legato a “Il navigatore“. È un pezzo di cui vado particolarmente orgoglioso perché contiene tanti elementi, c’è l’improvvisazione di Martino, la ritmica di Giulio, rappresenta un momento di coesione tra noi molto forte. E poi è complesso armonicamente, è uno di quei brani su cui ho imparato la composizione, nel senso che non ho solo applicato delle nozioni che sapevo, ma mi è servito proprio per impararne di nuove, quindi per tutti questi motivi scelgo “Il navigatore“.
Nel salutare e ringraziare il leader degli Aguirre per la sua spontaneità e gentilezza, confermo che la sua è un’ottima scelta perché si tratta in effetti di uno degli episodi di spicco di un lavoro che possiede davvero tante qualità e che merita di essere scoperto e ascoltato.