Fa un po’ specie che questo film abbia vinto il premio per la miglior sceneggiatura agli ultimi Goya, sostanzialmente perchè quasi non ne ha una. Quindi o si è voluto premiare l’ultimo quarto d’ora, dove si consuma una trovata citofonatissima ma efficace (che non cito perchè funziona bene e non voglio rovinarvi la sorpresa), o semplicemente si è trattato della scelta politica di premiare un film che tratta, anche con gran tatto, la scoperta di sè di un bimbo transgender di sette anni.
Tema importante a parte, che viene maneggiato con delicatezza, cura e senza mancare di esporre i dubbi e le paure di chi ad Aitor/Lucia (la piccola, straordinaria Sofia Otero) vuole bene, il film spagnolo non presenta particolari guizzi. La narrazione silenziosa tipica di certo cinema indipendente europeo è eccessivamente autoindulgente in termini di durata e scene descrittive.
Tutte le scene “della cazzo” di madre modellando statue nell’atelier non servono davvero a nulla, se non a farti venire voglia di randellarla con un tizzone ardente.
Molto bella la fotografia avvolta nella luce tenue dei colli e dei boschi baschi.