Un tempo esistevano idee e generi musicali ben definiti, le persone e gli stessi artisti erano attenti – a volte quasi ossessionati – da queste divisioni stilistiche ed ideologiche, soprattutto perché non volevano rischiare di essere fraintesi e finire nel gruppo sbagliato; c’era una sorta di “fedeltà alla linea” che divideva gli appassionati in tante, più o meno alternative, più o meno radiofoniche, più o meno consistenti, più o meno marginali, più o meno identitarie, tribù. Tribù che potevano rispettarsi, ignorarsi o, addirittura, disprezzarsi e confrontarsi tra loro; gli anni Ottanta rappresentarono il culmine di queste contrapposizioni ideologiche.
Dopodiché, fortunatamente, gli anni Novanta misero fine a questa faida delle etichette, dei nomi, delle definizioni, dei generi e dei sotto-generi, permettendo, di conseguenza, alle diverse sonorità ed idee di mescolarsi, di ibridarsi, di contaminarsi e di sovrapporsi apertamente. Una sovrapposizione che, in realtà, era sempre esistita nel mondo della musica, ma che ora usciva, finalmente, dall’ambito ristretto ed elitario dei musicisti e degli addetti ai lavori e poteva essere apprezzata, riconosciuta ed amplificata da chiunque, anche da coloro che avevano tratto, fino a pochi anni o mesi prima, indubbi vantaggi economici da questi stupidi, inutili e ossessivi conflitti.
Fu, probabilmente, proprio negli anni Novanta, che si iniziarono a utilizzare termini quali “commistione”, “contaminazione” o “crossover”, permettendoci, dunque, nonostante la bellicosa minaccia di non poter mai “uscire vivi dagli anni Ottanta”, di ascoltare, invece, album o meglio CD che avrebbero segnato un’epoca. Band ormai leggendarie come i Rage Against The Machine, i Beastie Boys, i Nine Inch Nails o i Soundgarden, nei cui dischi si andavano a sovrapporre, in maniera diversa, più o meno accentuata, narrazioni musicali diverse tra loro, passando dall’heavy-metal al funk, dal rap al punk, dall’alternative-rock all’elettronica, dalle trame acide e psichedeliche del rock degli anni Settanta al grunge.
Ed oggi? Oggi viviamo in un’epoca profondamente mediocratica, nella quale tutto è relativo, nulla è profondo, ma ogni cosa è, per lo più, orizzontale, generica, superficiale e, soprattutto, ideata per abbracciare quante più persone e posizioni possibili, senza, però, in realtà, abbracciare nessuno, perché l’unica regola vigente è che ogni parola, ogni comportamento ed ogni atteggiamento debbano essere privi di qualsiasi messaggio di carattere politico, economico o sociale. Anzi, la paura di prendere una posizione netta, di poter perdere ascoltatori, di essere emarginato e, magari, di uscire da una remunerativa playlist, spinge gli artisti più famosi e le poche band ancora esistenti, ad essere avulse ed estranee rispetto qualsiasi tema possa provocare faide verbali ed ideologiche. Bisogna tenersi lontani, ad esempio, da ciò che sta accadendo a Gaza in questi giorni.
Un atteggiamento facile, di compromesso, di equi-distanza che, in realtà, purtroppo, finisce, spesso, per essere dannoso nei confronti dei più deboli, di coloro che, invece, avrebbero bisogno di immediata solidarietà, di vicinanza e di sostegno. Ma la musica, ormai, è vissuta, soprattutto, come un enorme e temporaneo disimpegno, e ne sono la prova le migliaia di playlist prodotte, automaticamente, dai software che gestiscono le varie piattaforme di streaming. Playlist per il risveglio, per la palestra, per il lavoro, per il post-lavoro, per la cena intima e romantica, per fare baldoria con gli amici, per commuoversi, sognare o rilassarsi, che se ne fregano delle idee, dei generi, degli stili, delle sovrapposizioni o del crossover, ma che desiderano, unicamente, soddisfare i bisogni primari, materiali e momentanei, del singolo individuo e tenerne i pensieri il più lontano possibile da tutto ciò che può significare auto-critica, opinione, confronto o dibattito.
Non ne siamo usciti vivi da questo nuovo Millennio e ci va bene, anzi ci va benissimo così, perché preferiamo avere tutto quello che ci serve a portata di mano e non ci interessa come tutto questo ci venga procurato ed a prezzo di cosa. Tanto, male che va, ci ritroveremo tutti, il 21 maggio, in piazza Maggiore, a Bologna, convinti che una cinquantina d’Euro siano più che sufficienti per sentirsi ancora una volta “fedeli alla linea”, la linea che non c’è e che non c’è stata mai.