C’è una tensione che mira all’assoluto, in questo attesissimo sesto album della Holter, una precisa esigenza di sottrarsi ai macigni della vita reale (la morte dei genitori, la nascita di una figlia, il periodo pandemico) per mirare a immergersi, come mai prima, nel cosmo primogenito della musica, come fonte di respiro rigenerante. Non che finora nella sua carriera l ‘artista losangelina non abbia mai dato nè la sensazione nè formulato certe dichiarazioni, al limite dello snobbish style, di volersi calare nella realtà contaminata dal podio di una evidente background accademico, ma in questo “Something in the room she moves” sembra irremovibilmente protesa a dare massima libertà alla percezione delle sensazioni che il flusso sonoro può suggerire, un bagno nell’estasi di canzoni fluide ed incantevoli, dove la musica si fa e si ascolta seguendo lo scorrere delle emozioni che provoca, a volte proiettando la netta sensazione di un’impostazione coreografica, come un’accompagnamento sonoro per un’ideale performance di danza moderna, dove i corpi sinuosi e trasfigurati si mischiano , in una fusione carnale fra suoni e voce che tocca spesso un pathos unico ed originale, che la efficace copertina tenta di suggerire.
Questa forma di impianto coreografico che fornisce il senso dell’incipit nelle prime due “Sun Girl” e These Morning” dove viene disvelato il mood comune dell’album, un’avanguardia personale e minimale, fluida e libera, si confonde nelle sue linee più abbordabili con un art pop sublime, denso e onirico, con delle splendide ballate come la titletrack o il singolo “Spinning”, ma anche “Evening mood”, che ricordano le migliori cose dell’aureo periodo solista di David Sylvian. Canzoni che trovano nell’interpretazione della Holter così austera, dal ritmo lento ma inesorabile la perfetta sintonia con l’architettura sonora della band che la accompagna in questo viaggio fra i sensi, fatto di momenti avant jazz, con un fretless bass bello in evidenza, flauti celestiali di qua e di là, fiati digitali, in modulazioni armoniose fra saliscendi in grado di far esplodere le potenzialità dei musicisti, e sottofondi forestali, capaci di creare più volte un’atmosfera di magica estasi.
Ed è proprio qui, in questa dimensione quasi spirituale, che si può rintracciare il rifugio della Holter, un luogo misterioso ed affascinante, prezioso ed unico dove ci si può lasciare andare in modo assoluto e libero, come si diceva all’inizio, anche storpiando le parole di una classico dei Beatles nel titolo, anche osando modificare il linguaggio, anzi pretendendo di rinunciare magari ad un senso compiuto del linguaggio, usando i versi come diretta emanazione delle emozioni che la musica suscita, perchè il senso di tutto è la tensione creativa, il concepimento di una forma d’arte che permette alla Holter, in un balzo concettuale dirompente, di inserire verso la metà dell’album una cosa come “Meyou” , una oscura forma di vocalizzo dal sapore antico, una specie di esempio di meditazione, non un interludio, ma un vero e proprio esercizio terapeutico di quasi sei minuti, straniante al limite della sopportazione, ma perfettamente coerente con il metodo assolutista per la ricerca della migliore ispirazione.
Artista a 360 gradi, con “Something in the room she moves” continua quindi il processo di distillazione del talento di Julia Holter, sempre più alle prese con un inebriante saggio di conoscenza e condivisione del proprio universo, così sincero e così maledettamente intrigante nella sua adorabile complessità.