C’è sempre una strana forma di isterismo collettivo quando viene pubblicato un nuovo album di Beyoncé Giselle Knowles. La signora Carter, infatti, rappresenta uno di quei pochissimi nomi del panorama musicale mondiale (secondo, forse, solo a quello della Swift) che riescono ancora a smuovere un “discreto” numero di seguaci sparsi in giro per il globo terrestre.
Che si tratti di uno dei suoi maestosi (e costosissimi) live, o di un evento legato a meri fini commerciali, infatti, “Queen Bey” è diventata una sorta di totem pressoché intoccabile. Basti pensare alla strepitosa accoglienza riservata da pubblico ed addetti ai lavori all’ultima opera della Nostra, ovvero, quel “Cowboy Carter” che ha fatto parlare di sé ancor prima della propria pubblicazione.
Chi scrive, però, fortunatamente (o sfortunatamente, a seconda del parere di chi legge), è sempre stato scevro dai pareri dati per partito preso. Del resto, una delle caratteristiche basilari di un buon recensore, almeno in partenza, dovrebbe essere proprio quella di mantenere una certa equidistanza dalle opinioni altrui rispetto al lavoro di cui ci si andrà ad occupare. Detto ciò, l’ottavo album in studio di Beyoncé, nonché l’atto secondo della cosiddetta trilogia rinascimentale della popstar statunitense, non è altro che l’ennesimo capitolo di un libro in cui, oramai, si punta più all’effetto sorpresa che alla sostanza vera e propria.
Come definireste, altrimenti, l’epopea bulimica di un disco composto da ben ventisette tracce e dove la musica country viene sciorinata in ogni sua forma più recondita senza lasciare, però, un reale segno indelebile? Sia chiaro, “Cowboy Carter” riesce a strappare comunque una sufficienza piena. Va da sé, naturalmente, che gli ottantaminutiepassa di ascolto non siano certamente paragonabili a quelli di disconi epici (e veramente meritevoli di lodi) quali “Around the World in a Day” di Prince – che infatti dura “appena” quarantadue minuti – o, che so, “Desperate Youth, Blood Thirsty Babes” dei cari vecchi TV on the Radio.
Certo, quando si tratta di Beyoncé si parla di suoni patinate e producer all’ultimo grido. Ed allora, com’è ovvio che sia quando si ha a che fare con un disco del genere, alcuni brani non sarebbero neanche da buttare via. “16 Carriages”, per esempio, ha delle reminiscenze di “4″ (quello sì un signor album della Knowles) che si lasciano ascoltare con estrema piacevolezza. E lo stesso discorso, se vogliamo, lo si potrebbe estendere pure al (bel) featuring realizzato con Miley Cyrus nell’ottimo singolone in odor di Fleetwood Mac che risponde al nome di “II Most Wanted”.
Non solo. Anche l’incursione sperimentale in ambito country-hiphop – “Sweet, Honey, Buckin’” – è uno di quei brani che mantengono piuttosto alta l’asticella qualitativa di un album che altrimenti non giustificherebbe tutto l’hype creatogli intorno. In parole povere, “Cowboy Carter” è un lavoro che mal ripaga le aspettative (forse sbagliate in partenza) su di una svolta epocale, se non pesudo-indie, di un artista iper-mainstream come Beyoncé.
Piccola nota a margine. Un decennio fa, più o meno, Lady Gaga provò una virata simile con “Joanne”. Un album (country-pop) non così malaccio come descritto da più parti e di certo un po’ più coraggioso rispetto a questo “Act II”. Sappiamo tutti com’è finita. Ciò detto, sarà solo il tempo a stabilire qualità ed impatto di questo nuovo corso targato Mrs. Carter.