I Libertines sono stati sempre una band divisiva, chi li amava e chi non li sopportava, resta comunque innegabile il fatto che quando si presentarono sulla scena musicale nell’ormai lontano 2002 con “Up the Bracket” ebbero un notevole impatto che permise loro di non passare di certo inosservati.
Un suono grezzo ma con stile, che ben si abbinava al look della band, e che li faceva sembrare una improvvisa e inaspettata ottima via d’uscita dalla scena Britpop, della quale era ormai necessario liberarsi definitivamente.
La loro fine inizia già dal primo album, i gravi problemi di tossicodipendenza di Pete Doherty, la sua discesa all’inferno e nelle patrie galere, la rivalità con Barât non poteva far altro che distruggere la band capace comunque di lasciarci due album interessanti.
Oggi troviamo un Pete Doherty, che miracolosamente è sopravvissuto e sembra ormai essersi disintossicato completamente dal 2015, e un Carl Barât anche lui tutto sommato un sopravvissuto (ad una malattia grave e alla depressione) che non sono più dei ragazzini, privi della forza e del fascino che ti dà essere un giovane affascinante musicista (si stanno incamminando verso i cinquant’anni) è abbastanza legittimo aspettarsi da loro qualcosa di diverso.
Un discorso iniziato nel l’ormai lontano 2015 con “Anthems for Doomed Youth” e che li vede ora tornare con questo “All Quiet On The Eastern Esplanade” che ci offre un ascolto piacevole, un album onesto che si lascia ascoltare senza però portarci verso grandi entusiasmi.
Doherty ha dimostrato con la sua lunga carriera solista (carriera non molto riuscita nel caso di Barât ) di avere un certo talento compositivo, ma tolta ai Libertines la loro qualità migliore, una sfrontatezza giovanile che veniva espressa musicalmente attraverso una caotica urgenza espressiva ( con tutti gli errori e le ingenuità che questo periodo della vita si porta con sé), si finisce oggi con il restare abbastanza indifferenti anche quando cercano di ripetere i fasti dei loro primi album.
Prendendo ad esempio “Run, Run, Run” e soprattutto “Oh Shit” tutto appare evidente: venendo a mancare il coinvolgimento e soprattutto la freschezza e la naturalezza che fuoriusciva dai successi degli inizi (“Don’t Look Back Into the Sun” e “Can’t Stand me Now” per fare due esempi) i brani scivolano via senza riuscire a trascinarti più di tanto.
“Night of the Hunter”, scelto come singolo, è un classico brano alla Doherty arricchito da un ormai abusato utilizzo del “Lago dei cigni” di Cajkovskij, funziona nell’economia dell’album ma senza entusiasmare più di tanto, come avviene anche per “Baron’s Claw” che ricorda pezzi di Tom Waits di parecchi anni fa.
Il problema è che si rimane a galleggiare tra brani che si ascoltano ma che mantengono una certa omogeneità’ senza che nessuno riesca a fare brecce particolari nell’ascolto sia quando ci si da dentro come un tempo ( “Have a Friend”), sia quando si cerca di volare piu’ alto (“Shiver”), si arriva così alla fine finendo con il trovare il meglio negli ultimi brani come avviene per “Be Young”, che ha un certo fascino grezzo e una carica melodica che tra energia post punk e reggae risulta divertente, e la conclusiva e convincente “Songs They Never Play on the Radio” che dolcemente chiude il sipario.
“All Quiet On the Eastern Esplanade” dispensa qua e là momenti di potenziale brillantezza senza però che questo produca brani veramente interessanti e capaci di accompagnarti per lungo tempo.