Contemporaneità e passato. Schiavitù. Ovvero, un termine che racchiude al suo interno una (triste) storia lunga secoli e che suscita sempre dei sentimenti forti. Utilizzato per la prima volta a metà del diciassettesimo secolo – sebbene fosse in uso da molto prima – da allora ha formato un’associazione pressoché diretta con le navi che trasportavano carichi vincolati per il successivo commercio umano.

Credit: Ebru Yildiz

Nei suoi dischi, sia come artista solista che come collettivo jazz, Moor Mother si è sempre occupata di temi riguardanti la politica e le problematiche sociali. E non fa eccezione, in tal senso, l’ultimo lavoro pubblicato dalla Nostra. “The Great Bailout”, infatti, non rappresenta altro che un (gran) disco “espressionista”, dove in una forma libera ed intrinsecamente schietta, la poetessa, musicista ed attivista americana, sciorina tutte le armi che ha a disposzione contro le atrocità degli argomenti tetri e inquietanti di cui l’album è impregnato.

La maggior parte dei brani di “The Great Bailout” sono dei veri e popri manifesti di giustizia per un popolo – quello afroamericano – alquanto segnato da secoli di becera colonizzazione. Camae Ayewa (questo il vero nome di Moor Mother) racconta – con agghiacciante solennità – di leggi vergognose, ora abrogate, e delle afflizioni della schiavitù, musicalmente supportate da una meticolosa stratificazione di mormorii, urla ed eccentriche percussioni vocali.

In “All the Money”, forse l’apice dell’opera in questione, Camae menziona l'”appello di Virginia” contro un atto del 1669 che consentiva ai padroni di punire a morte i loro schiavi. Alya Al Sultani, uno dei featuring presenti nel lotto, aiuta a sostenere le sue affermazioni piangendo in fondo al pezzo ed aggiungendo un tocco opportunamente straziante alla canzone. È un album meravigliosamente strano, denso e viscerale che trova conforto in un inquietante sperimentalismo, “The Great Bailout”. Non solo.

Pezzi come “Death by Longitude” e “Liverpool Wins” sono tra i lavori più emozionanti mai proposti da Moor Mother, poiché privi di una struttura canonica, ma intrisi di suoni viscerali e di Poesia parlata. Sapendo che solo una minuscola parte della Storia afroamericana venga portata alla coscienza pubblica, Moor Mother intende rendere popolari i fatti meno noti della stessa attraverso le pieghe accattivanti di un disco come The Great Bailout. Va da sé, naturalmente, che ogni canzone presente all’interno dell’album riesca a trasportare l’ascoltatore in un universo fatto di consapevole indignazione.

Tuttavia, invece di autocompiangersi in una sorta di dolore personale, “The Great Bailout” ha lo scopo di esaminarlo su scala storica e cosmica. La schiavitù, l’identità razziale moderna e il modo in cui entrambe si intersecano giocoforza con la black culture, potrebbero non essere un argomento sconosciuto a Moor Mother, ma è uno di quelli che l’artista americana sta mettendo in luce in misura maggiore. Forse, per chi scrive, un tantino a discapito della coerenza stilistica nella scrittura delle canzoni.

Tradotto in soldoni, qualora si riuscisse a mettere da parte l’aspettativa (un po’ arcaica, in verità) che ogni disco debba presentarsi per forza sotto forma di ottimismo e accessibilità, “The Great Bailout”, ai più, risulterebbe come un lavoro non solo gradevole e di qualità, ma anche necessario.

Fortemente necessario.