Arrivati al quinto album, siamo finalmente al punto in cui non vi è alcun necessario timore che i Metz rimpiangano di essere considerati solo la perfetta copia di qualcos’altro, in quanto continuano a cadenze, non più serrate come agli inizi, a renderci in modo più che discreto, parte in causa della fortuna di riprodurre il suono di quel periodo non ancora dimenticato, che negli annali è passato, parliamo del grunge e sue derivazioni, come uno degli ultimi scatti sussultori che il fenomeno rock abbia vissuto finora.
Da questo punto di vista, “Up on Gravity Hill” ha forse, rispetto ai precedenti, una fierezza maggiore, una solidità che va ben oltre quella tipica del genere, una compattezza e linearità misurate e perfettamente coincidenti con quello che ci si poteva aspettare di ancora valido da una band che, in sincera verità, poneva da subito il dubbio su quando questa dedizione verso quel tipo di sonorità potesse far durare l’hype, o almeno quanto questo poteva alimentare l’entusiasmo dei fan. Al quinto album evidentemente, questo dubbio non è più ipotizzabile e come dire, grazie anche a fattori esterni come il superamento indenne della pandemia, al pari forse dell’allontanamento del mainstream verso territori post punk, hanno permesso ai canadesi di avere campo libero, di abbeverarsi con maggiore convinzione alla fonte di questo sound, con un gruppo di canzoni dove il suono delle chitarre è quanto di meglio si possa desiderare, fresco ed aperto, la batteria è un tributo continuo a Dave Grohl, il cantato non subisce più connotazioni brufolose degli inizi da drunken punk, ma anzi trova un suo stile maturo e consono.
Non solo, ma anche il più indifferente dei detrattori non può non essere travolto dalla potenza del treno delle almeno prime quattro canzoni, una specie di stop and go continuo ed implacabile, via una, sotto un’altra, che sa molto di celebrazione, dove sembra di passare dai set infernali di “In Utero” (” 99″) ai Bush come a molti altri rimandi, senza che questo dia la sensazione di qualcosa di stucchevole.
Quando poi, visto anche il piacevole corto minutaggio, si pensa di aver capito tutto, arriva “Light Your Way Home” finale shoegaze, a scombinare le carte, a far emergere qualche pensiero diverso sul possibile futuro, a rilanciare qualche contaminazione, se vogliamo essere propositivi, mentre forse potrebbe essere un comodo trasformismo verso un genere che nell’ultimo decennio è riesploso, riuscendo a conquistare anche le nuove generazioni: il risultato iniziale di questo nuovo approccio è un duetto discreto, un tentativo di abbassare i ritmi dei Metz e di trascinarli forse verso territori più allineati con la maturazione della loro carriera, rimanendo dentro confini riconoscibili, visto il muro di chitarre inferto. Vedremo alla sesta puntata.