“Get ‘em in, get ‘em out”, è così che si può sintetizzare l’attività artistica di Steve Albini. Un produttore che, già negli anni Novanta, quando entità come i file Mp3 o l’iPod emettevano i primi vagiti, mentre registrava il leggendario “In Utero”, aveva intuito dove ci stesse portando l’eccessiva digitalizzazione della nostra musica e, più in generale, delle nostre esistenze, dei nostri ricordi, nelle nostre idee e dei nostri sentimenti.
Le sue registrazione sono sempre state rivolte alla verità, a rappresentare, cioè, l’essenza più veritiera della band o degli artisti che entravano nello studio di registrazione, in modo da creare qualcosa che fosse il più vicino possibile ad un’esecuzione live. Chiunque abbia abbastanza tempo ed abbastanza soldi può creare qualcosa che sia perfetto, che abbia ogni parte, ogni assolo, ogni singola nota o parola al posto giusto, ma, così facendo, viene meno lo spirito, non c’è passione, perché è proprio nelle nostre imperfezioni, nelle nostre distorsioni, nei nostri feedback, nei rumori, apparentemente disordinati e casuali, che pulsa la nostra anima, altrimenti tutto si riduce ad un fatto di apparenze, di forme, di modelli stilistici, di copie conformi che non hanno nulla a che vedere con la sostanza, con la realtà, con i ritmi e le armonie del mondo naturale.
E’ questo il mondo nel quale esistiamo, il mondo nel quale possiamo sognare, sperare, coltivare interessi, migliorare, crescere o creare. Dovremmo ricordare sempre la lezione di Steve Albini, soprattutto oggi, in un’epoca che pretende di ridurre qualsiasi cosa ad un insieme, assolutamente ordinato, assolutamente prevedibile, assolutamente indistinguibile, assolutamente sterile e assolutamente arido di righe di codice, di strutture digitali, di algoritmi, più o meno intelligenti, che, però, svuotano le persone della loro fondamentale umanità, trasformandole in automi, in pupazzi, in burattini e, purtroppo, spesso, in mostri senza alcuna sensibilità.
Un bassista che ascoltava i suoi vinili, con una preponderante inclinazione verso la dimensione analogica del suono, con un’idea precisa del rock, lasciando ad altri le definizioni su quanto alternativa o indie fosse la band che varcava la soglia del suo mondo pulsante ed in continua evoluzione. Steve è stato un costruttore, un plasmatore di vita, che, come Efesto, lavorava il fuoco e il metallo, riuscendo ad incastonare, in un disco, quella che era l’anima della band, quelle che erano le loro idee, le loro emozioni, la loro visione, nonché il piacere per ciò che facevano, consapevole del fatto che, al di là del suo prezioso contributo, il risultato finale era, soprattutto, una questione, romantica e punkeggiante, di coerenza, di impegno e di amore in quello che questi ragazzi, che potevano essere i Pixies, i Nirvana, gli Slint, i Jesus Lizard o qualsiasi altro gruppo dell’universo, riuscivano a mettere e a trasmettere in ciò che suonavano.
Se ne va un uomo di talento, un uomo appassionato, un sognatore, ma, soprattutto, un uomo libero, schietto, sincero, lontano anni luce dagli “yes men” di cui abbonda, oggi, la nostra società, un uomo che ha sempre detto ciò che pensava e fatto quello in cui credeva.
Addio Steve, ci mancherai.