Un pranzo a base di fagioli, sugo e polpette (tutto insieme, in un unica ciotola, perchè il tempo è denaro e il mio Sunderland a FIFA13 ha fame di successi) e il caldo immane (e finalmente, direi) del pomeriggio milanese mi fanno arrivare al CarroPonte con la vitalità e l’entusiasmo di un ippopotamo sottoposto a prova da sforzo. Però suonano Lisa Hannigan e Glen Hansard, due dei live act più sottovalutati del globo terracqueo, e pur avendoli già ammirati qualche mese fa al LimeLight, ci si deve essere (a tal proposito vorrei ribadire i miei amorevoli sbeffeggi nei confronti della mia collega Antonella che si è arresa alla pigrizia).
Guadagnare le transenne sotto il palco mi permette di godere, oltre che della voce di un angelo talvolta col vizio del fumo, anche della bellezza acqua e sapone della Lisa più adorabile d’Irlanda, appunto. (Lisa, sposami. Pensaci, seriamente. Potremmo mettere su una casa piena di dischi e di rhum, visto che a quanto pare vai matta di entrambi. O una roulotte, se non vuoi stabilirti. Però sposami.) Lei che anche solo con la sua chitarra riesce a illuminare la scena, con un folk arpeggiato, dolcissimo e malinconico come mille, eppure dal potere balsamico e dal sapore personalissimo.
Lisa Hannigan ha quel qualcosa in più che potrebbe farne una delle maggiori songwriters degli anni a venire (non che non lo sia già , ma spero esca definitivamente dalla nicchia più profonda per approdare su palchi solo per lei). Quando poi la accompagnano i Frames (la band di Glen Hansard, se qualcuno ne fosse all’oscuro) queste speranze si tramutano nella certezza che due ore in sua compagnia non se le dovrebbe negare nessuno. Applausi meritati e richieste (non poi così usuali per un artista di supporto) di continuare a suonare ancora e ancora.
L’aver guadagnato le transenne mi impedisce tuttavia di godermi da vicino l’inizio della performance di Glen, il quale sotto il suo sdrucito (e onestamente illegale, data la temperatura) berretto nero di lana comincia la sua serata direttamente dal mezzo della platea. Poi sale sul palco con i fidi compagni d’avventura (un’avventura quasi ventennale eh), sfugge all’arresto togliendoselo, il berretto, e macina canzoni su canzoni, appagando tutti con uno dei live più sorprendenti e divertenti cui probabilmente abbiano preso parte (il sottoscritto era ben conscio del fatto che dal vivo Glen e i Frames sono tipi da vedere assolutamente, ecco perchè nonostante lo stomaco a palla di cannone arrugginito si arriva a Sesto San Giovanni con congruo anticipo per essere in prima linea). In più di tre ore, Hansard si permette di stravolgere la setlist rispetto alla data milanese di marzo: assenti di lusso “You Will Become”, con cui il suo esordio solista “Rythm and Repose” si apre, e “Santa Maria”, insieme a “Fizcarraldo” (questa si, suonata nel tripudio generale) uno dei pezzi più amati dei Frames.
Glen Hansard può tranquillamente permettersi di suonare qualsiasi cosa, anche la stessa canzone per dieci volte di seguito, perchè lui le canzoni semplicemente ce le ha, e le esegue insieme ad una band impeccabile (arricchita da due violiniste, una contrabbassista, un trombettista, un sassofonista e un trombonista) rendendole cinquemila volte migliori che su disco. Nessun effetto speciale, “vecchia” musica folk, blues e rock. è la semplicità al potere, la genuinità di un cantastorie inguaribilmente romantico ma non per questo triste. Voglio dire, le sue sopracciglia a ipotenusa son lì a dipingere di pathos la sua faccia mentre sciorina versi di una semplicità (vogliamo dire anche banalità ) disarmante, ma che puntano dritti dalle parti dello sterno di chiunque abbia qualcosa che batta dalle parti dello sterno. Ma subito dopo lui scherza, sfodera un sorriso sornione e birbante tipico degli irlandesi vagamente paonazzi in volto, di cui so qualcosa avendo avuto un professore d’inglese irlandese esattamente così.
Glen e i Frames, cosa fondamentale, sanno suonare, e molto bene. E avendoli visti io stesso live due volte, oltre che scambiando impressioni con una simpatica signora assiepata anche lei lì davanti (dite che ho svoltato? Ultimamente mi sento molto corteggiato da ultra-cinquantenni: forse vedono in me il tipo perfetto per le proprie nipoti. Almeno spero.) suonano SEMPRE molto bene. Non c’è una serata si o una serata no, il massimo viene sempre tirato fuori. Insomma, tredici persone che dopo tre ore non vogliono proprio saperne di smettere di suonare non capita così di frequente no?
Sul concerto di per sè (successione vera e propria dei brani) c’è poco da dire: la solita “Bird of Sorrow” da lacrime, la solita “Fizcarraldo” accolta con ovazione, la solita melensa (nell’eccezione migliore che ci sia) “Maybe Not Tonight”, una “Low Rising” sempre da pelle d’oca, la vibrante “Once” (eseguita unplugged in gruppo con Lisa Hannigan) e l’attesissima “Falling Slowly” (cantata sempre insieme alla mia futura moglie, sempre che quel marpione non riesca ad accalappiare anche lei). Pian piano viene a crearsi un’atmosfera da rimpatriata in un pub dublinese che raggiunge l’apice con il canto popolare “The Auld Triangle”, con cui il Nostro saluta davvero commosso ed emozionato e il cui ritornello viene fatto cantare a turno al pubblico, al tecnico-palco e finanche al baffuto e simpaticissimo omaccione al mixer.
Quello che mi importa sottolineare e testimoniare è come da un concerto di Glen Hansard non si possa uscire meno che felici e con un sorriso a novantotto denti. Non un sorriso ebete, si badi bene, ma un sorriso che ti fa affrontare il fatto di correre come un folle sfiorando l’infarto senza riuscire a prendere la metropolitana pensando “macchissenefrega” e continuando a canticchiare una delle cover proposte, “Passing Through” di Pete Seeger, la vita in canzone:
I saw Jesus on the cross on a hill called Calvary
“Do you hate mankind for what they done to you?”
He said, “Talk of love not hate, things to do – it’s getting late.
I’ve so little time and I’m only passing through.”
Passing through, passing through.
Sometimes happy, sometimes blue,
glad that I ran into you.
Tell the people that you saw me passing through.
E per chi delle canzoni fa la propria vita, come Glen ma anche come me, che a parte ascoltare compulsivamente musica e portare virtualmente squadre di calcio mediocri sul tetto del mondo altre passioni vere e proprie non ne ha, queste serate sono le migliori del mondo.
Credit Photo: Andy Witchger, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons